Inutile chiedere una scuola più nuova se poi ci dimentichiamo i vecchi valori

Parlare della cultura oggi in Italia non è facile, in quanto si riscontrano vertici sia in positivo, sia in negativo che non è facile considerare nei loro nessi e nei loro reciproci influssi.
In primo luogo, si parla molto male della scuola soprattutto secondaria (ma in parte anche di quella primaria), e le ragioni che vengono addotte sono in genere ben fondate. Però si dimentica un particolare: i Licei classici e scientifici, quando sono tenuti da insegnanti che svolgono il loro compito in modo adeguato, sono ancora modelli esemplari. Gli studenti dei licei italiani, per esempio, risultano essere nettamente superiori agli studenti di tutti gli altri Paesi in filosofia. Hans-Georg Gadamer (uno dei più grandi filosofi del secolo XX) diceva che gli studenti italiani che lo ascoltavano intendevano il suo pensiero assai meglio di quelli tedeschi. Ricordo che, invitato a un convegno tenutosi anni fa a Bonn, illustrai il modo in cui si insegna filosofia nei licei italiani e un professore mi fece la seguente obiezione: certo, in filosofia nelle scuole medie superiori siete all’avanguardia, ma le riforme sono state fatte da Benedetto Croce e da Giovanni Gentile in modo mirabile. Ma come si possono trovare ministri come questi? Anche nelle pubblicazioni di testi filosofici siamo all’avanguardia. E i quotidiani - malgrado la riduzione sempre crescente delle pagine culturali - promuovono collane di opere di notevole portata.
Se però si passa agli elementi negativi della scuola, ben si può dire che mala tempora currunt. Molti giovani non sanno più correttamente scrivere e leggono pochissimo. Mostrano di non essere stati abituati alla fatica e all’impegno che implica lo studio. Mostrano di non aver imparato dalla scuola un metodo coerente e consistente. E le colpe di molti editori che abbassano la qualità per poter vendere più libri è ben nota. Senza parlare dell’assurdità di portare libri scientifici a costi insopportabili, come fanno certi editori tedeschi: alcuni volumi costano addirittura alcune centinaia di euro, e sono quindi acquistati solo da certe biblioteche.
Le ragioni di vari malanni sia della scuola, sia dell’editoria hanno però ragioni storiche ben precise. I vari strumenti multimediali hanno creato straordinari mezzi di comunicazione impensabili anche dalla più ricca e potente fantasia degli uomini del passato. Ma sono privi di contenuti o hanno contenuti estranei alla vera cultura. I giovani, fatalmente, usano molto spesso tali invenzioni come strumenti di gioco e non di apprendimento.
È in atto una vera e propria rivoluzione culturale in cui è in gioco la civiltà della scrittura e tutto ciò che è a essa connesso. I nuovi mezzi di comunicazione, per la loro natura e per la loro portata modificano i rapporti di chi li usa sia con le cose, sia con gli altri, con le conseguenze che ciò comporta. Instaurare un rapporto costruttivo e positivo fra la cultura della scrittura e la nascente civiltà dei mezzi di comunicazione multimediale non è facile. Ma è un errore gravissimo quello che alcuni stanno commettendo di pensare che la soluzione consiste nell’eliminare la cultura della scrittura e tutto ciò che essa implica.
Alcuni psicologi e pedagogisti sembrerebbero non aver compreso proprio questo, ossia che tali strumenti, se si prescinde dai contenuti provocano danni irreparabili. Nel sentire certe proposte fatte da questi uomini mi vengono alla mente due aforismi di Nicolás Gómez Dávila: «Lo psicologo abita i sobborghi dell’anima, come il sociologo la periferia della società» e «La smania pedagogica è stata il consigliere delle peggiori sciocchezze della storia e dei suoi più orrendi crimini». Aforismi che, se spogliati dell’eccesso dello stile icastico portato agli estremi, contengono molto di vero.
Alcuni sostengono che le riforme delle scuole devono fondarsi soprattutto su questi due punti. 1) Insegnare a fondo la lingua inglese come strumento di comunicazione con gli uomini di tutto il mondo. E insegnare questa lingua non solo con gli strumenti tradizionali, ma anche con l’introduzione dell’obbligo dell’insegnamento di alcune materie (soprattutto scientifiche) non in italiano, ma in quella lingua. E su questo punto io sarei d’accordo (in giusta misura, naturalmente, senza cadere in eccessi). 2) Preparare i giovani in modo il più possibile accurato all’uso di tutti gli strumenti di comunicazione multimediale, tenendo costantemente in conto di tutte le innovazioni che via via vengono presentate. E anche su questo sarei d’accordo.
Ma manca un adeguato fondamento. La lingua inglese e la tecnologia multimediale sono solo strumenti. La scuola non si può limitare a insegnare l’uso di strumenti. Occorrono i contenuti, ossia i valori, senza i quali quegli strumenti rischierebbero di funzionare a vuoto. L’obiezione che mi è stata fatta da alcuni è questa: non è compito della scuola comunicare valori, che sono opinabili e controvertibili. E questo altro non è se non puro nichilismo.
Ciò di cui io ritengo che i giovani di oggi abbiano bisogno è soprattutto il ricupero di certi valori che li aiutino a scoprire il significato delle cose e della vita, che solo la cultura della scrittura può comunicare. Alcuni psicoterapeuti hanno giustamente rilevato che il dramma dei giovani di oggi deriva soprattutto da due fatti mai verificatisi nel modo in cui oggi si verificano: molti trovano il caos in casa (separazioni e divorzi) e tutti il caos fuori casa (caduta di ogni fede nel Progresso e nel positivo che promette il futuro). Da questi mali non curano certo gli strumenti multimediali e tutto ciò che è a essi connesso.
Se poi parliamo dell’Università, più che mai dobbiamo dire che mala tempora currunt. L’introduzione della laurea breve ha semplicemente trasformato l’Università in un Liceo. La semplificazione dei curricula è veramente al limite dell’assurdo. Per un corso semestrale non si possono imporre allo studente più di 250 pagine, per un corso annuale più di 500, e così di seguito. I malanni connessi con i concorsi sono a tutti ben noti.
Massimo Cacciari, nell’intervista pubblicata su questo quotidiano pochi giorni fa indicava l’eliminazione del valore legale del titolo di studi come efficace terapia di vari mali. Io sono dello stesso parere. I benefici che ne deriverebbero sono enormi. Da un lato, implicherebbe l’effettiva efficienza dell’Università basata sul prodotto che si mostra in grado di fornire. Dall’altro, aiuterebbe i giovani a non confondere ciò che veramente sanno con ciò che attesta un pezzo di carta.
Per quanto riguarda gli insegnanti delle scuole secondarie, la terapia che sarebbe veramente curativa di molti malanni potrebbe essere la seguente. In primo luogo lo stipendio dovrebbe essere per lo meno raddoppiato (con lo stipendio di un insegnante, oggi a Milano non si vive). Ma anche la qualità andrebbe molto migliorata. Severi esami e controlli incrociati. Farei come mi si dice che viene fatto in qualche Paese: se entro cinque anni uno dimostra di non essere capace di svolgere il compito che gli compete, viene invitato a cambiare mestiere. Bisogna anche che il pubblico cambi la valutazione della professione dell’insegnante e ne comprenda l’importanza assai notevole.

Platone considerava i suoi scritti (che sono capolavori in senso assoluto) dei sublimi giochi, rispetto alla serietà con cui aveva svolto il suo mestiere di insegnante nell’Accademia. I suoi libri li ha scritti su rotoli di carta. Come insegnante, invece, aveva scritto nell’animo degli uomini, e questa è la cosa più importante.

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