Io che non corsi la finale per colpa della guerra

Oggi compio 90 anni. Sono tanti o sono pochi? Non lo so. So soltanto che ci sono arrivato, anche con un po’ di fortuna (come si dice: quando c’è la salute, c’è tutto), cercando di superare in velocità le tante difficoltà che mi sono trovato a dover affrontare. Siccome ho fatto atletica e sono stato uno sprinter, ho sempre cercato di non essere precipitoso, ma veloce. Credo di essere l’ultimo velocista, di quella generazione che la Seconda guerra mondiale ha trattato male, anche se, in un bilancio generale, non posso lamentarmi. Non ho raggiunto né la popolarità né i risultati di Berruti e Mennea, ma non ho avuto nemmeno a disposizione tre Olimpiadi ed altrettanti campionati europei. Ho perso due volte i Giochi Olimpici. Nel 1940, avevo appena compiuto vent’anni ed ero un velocista da finale dei 100, ma ad Helsinki, dove si sarebbe dovuto gareggiare, dopo il no a Tokyo per la guerra sino-giapponese, non siamo mai arrivati. Il Cio aveva sospeso la propria attività per motivi bellici. Quattro anni dopo la situazione era peggiorata: si sentivano soltanto gli spari dei cannoni e non quelli degli starter e di Olimpiadi non si parlava proprio. Sono comunque riuscito a partecipare ad un’edizione dei Giochi, quelli di Londra del ’48, a 28 anni, con la staffetta 4x100 e a vincere una medaglia di bronzo come terzo frazionista. In realtà la staffetta azzurra era salita sul podio da seconda, come testimoniano anche le foto dell’epoca; ma poi la riammissione del quartetto Usa ci aveva costretto a restituire l’argento e a prender il bronzo, quando già eravamo sul treno per tornare a casa. Due anni prima, ai Campionati europei di Oslo, avrei voluto vincere l’oro dei 100 metri: ero in testa fino a 5 metri dal traguardo, poi all’improvviso avvertii la fatica di un viaggio in aereo avventuroso, i quattro anni di militare, con pochissima atletica, la preparazione che avrebbe potuto essere migliore. Così portai a casa soltanto il bronzo.

Avevo cominciato a correre, quando avevo 18 anni, per una scommessa con un mio compagno di scuola al liceo Carducci di Milano, Renzo Aresi, che già era un giovane sprinter. Mi aveva invitato ad allenarmi con lui al campo Giuriati, che allora era il foyer dell’atletica milanese e del rugby, rappresentato con tanti scudetti dall’Amatori. Andai al Giuriati senza grandissimo entusiasmo, ma avevo capito subito che avrei potuto combinare qualcosa di buono. In un paio di stagioni, avevo raggiunto il titolo di campione italiano dei 100 metri. Alla fine, i titoli sarebbero stati 14, fra 100, 200 (l’ultima volta a Bari, nel ’49, un anno dopo l’Olimpiade) e staffetta. Ai miei tempi, le piste erano tutte in carbonina o in tennisolite (altro che tartan e derivati), così come all’inizio della mia carriera non c’era traccia degli starting-block ed era necessario scavare una buca dove mettere i piedi. Era un’atletica un po’ pioneristica, ma anche allora seria e divertente. Agli allenamenti si andava in motorino, perché bisognava anche lavorare, per vivere.

L’atletica, in fondo, è stata la mia vita o comunque una parte importante della mia vita: di atletica ho scritto per tanto tempo sui giornali e sul Giornale. Da Owens a Bolt, mi accompagna da più di 70 anni. E la passione è quella del primo giorno.

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