«Io, milanese, volto di Al Jazeera»

Stefano Lorenzetto

Wùlidat nàgmah. Ovvero: è nata una stella. Se n’è accorta persino la recéptionist dell’hotel T di Cagliari che un mese fa ha accolto Barbara Serra, in Sardegna per un convegno: «Benarrivata, signora. Lei lavora per Al Qaida, vero?». E la telegiornalista, mascherando il disappunto dietro il suo sorriso ad alta definizione, conscia di come anche in una gaffe innocente possa annidarsi un pregiudizio subliminale: «No, guardi, io lavoro per Al Jazeera».
Eppure a Cagliari dovrebbero conoscerlo meglio che in qualunque altra parte del globo il volto radioso, da spot del Colgate più che da tiggì interplanetario, della prima e unica conduttrice non araba del controverso canale satellitare del Qatar, in passato la prima e unica anchorwoman non inglese di un telegiornale nazionale in Gran Bretagna. Suo padre Giorgio, dirigente dell’Eni in pensione sposato con Luisa, una siciliana che dev’essere concausa di questa prorompente bellezza mediterranea, è nato a Decimomannu e lei ha esordito nel 1997 a Videolina, la televisione privata fondata nel capoluogo sardo dall’editore Nichi Grauso.
Ne ha fatta di strada Barbara Serra, nata appena ieri (19 agosto 1974) a Milano, fino alla terza elementare alunna dalle suore di Maria Consolatrice in viale Corsica, finita a 8 anni in Danimarca al seguito del genitore trasferito per lavoro («uno shock, ma da bambini ci si riprende in fretta»), partita a 19 per l’Inghilterra («ho studiato relazioni internazionali alla London school of economics»), un master in giornalismo alla City University che le ha dischiuso le porte per uno stage alla Cnn («entrai alla vigilia della guerra in Kosovo e così, complice l’emergenza, restai in redazione più del previsto»). Infine assunta a tempo pieno alla gloriosa Bbc, la Rai del Regno Unito, dov’è rimasta quattro anni passando dal Today programme radiofonico («quando il primo ministro deve dire qualcosa alla nazione, va a dirlo lì») ai telegiornali.
Due brevi esperienze come conduttrice dei notiziari di Sky News e Channel Five, ed eccola ad Al Jazeera, soprannominata «la Cnn del mondo arabo», finanziata interamente dall’emiro del Qatar, Hamad Bin Khalifa Al Thani, tre mogli, nessun partito fra i piedi, salito al potere nel 1995 dopo aver detronizzato il padre che era in vacanza all’hotel Carlton di Cannes.
Barbara Serra sarà il volto di Al Jazeera international. Il nuovo canale della Tv qatariota trasmetterà soltanto in lingua inglese. Avrà la redazione centrale a Doha, capitale dell’emirato, e tre sedi: Londra, Washington, Kuala Lumpur. L’emiro, che in dieci anni ha già speso – secondo le stime più prudenti – 400 miliardi di vecchie lire per mantenere in vita l’emittente, anche stavolta ha fatto le cose in grande: nella sola redazione londinese ha assunto un centinaio di persone. «Stiamo lavorando da marzo ai numeri zero. Penso che andremo in onda da settembre», scalpita la Sheherazade digitale.
Perché ha fatto la giornalista?
«Vedevo Christiane Amanpour in diretta durante la prima guerra del Golfo e sognavo di diventare come questa donna, forte, sicura di sé, che ti dice la sua opinione, la difende e non si scusa».
In realtà si presentò al concorso di miss Italia nel 1996. Più che il sacro fuoco del giornalismo, si direbbe che in lei ardesse la fregola d’apparire.
«Furono mia madre e mia sorella Irene a iscrivermi a mia insaputa spedendo un tagliando al settimanale Gioia. Pensavo di farmi una vacanza gratis a Riolo Terme. Non mi ha cambiato la vita».
Ed è sempre a sua insaputa che fu concorrente a Blind date, uno show che proponeva appuntamenti al buio?
«M’è servito per capire come funziona la televisione. Era un programma di Itv, la più popolare emittente commerciale britannica. Io al di qua di un muro, dall’altra parte tre ragazzi mai visti. Dovevo interrogarli per scoprire quale di loro fosse il compagno più adatto per un viaggio natalizio».
La scelta su chi cadde?
«Sul numero tre, Peter, un inglese di origine caraibica».
Perché?
«Mi faceva ridere».
Basta così poco per entrare nelle sue grazie?
«Tra il bellone che mi annoia e l’uomo che mi fa ridere, scelgo senza dubbi il secondo».
Così è partita con Peter.
«Sette giorni di vacanza in Cile».
Camere separate?
«Be’, certo. Con la troupe che filmava il viaggio. Una cosa molto innocente».
Insomma, il giornalismo non è stato un ripiego.
«Nooo! Ma stiamo scherzando?». (Mi trafigge con un’occhiataccia).
Da chi ha imparato di più in questo mestiere?
«Da Simone Cole, caporedattore di Sky News».
Credevo che il suo mito fosse David Frost, l’intervistatore di fiducia dei presidenti americani e dei premier britannici.
«Ho lavorato con lui alla Bbc e l’ho seguito ad Al Jazeera. Metta di vedere Bruno Vespa fra 20 anni. Lui ne ha più di 70. La differenza d’età pesa. Inoltre è baronetto di sua maestà, per cui... Hello sir David, hello Barbara. Sorrisi e strette di mano, più in là non si va».
Invece con Cole?
«Fu il primo a difendermi dalle critiche per la mia pronuncia».
Il pubblico britannico non gradisce il suo accento?
«Anche le scozzesi hanno un accento. Il problema è un altro: si sentiva che ero straniera. Ma ci ho fatto il callo. In Tv ti criticano per tutto».
Ha avuto bisogno d’essere raccomandata?
«Non funziona così in Inghilterra».
E come funziona?
«Si parte dalla gavetta. E per gavetta intendo alzarsi alle 5 del mattino per essere alla Bbc prima delle 6 e, appena arrivata, preparare anche il tè ai colleghi».
L’avvenenza l’ha aiutata?
«Bisogna avere un look, questo sì. Ma solo perché la gente si deve fidare di te. Il conduttore è un po’ anche un attore. Lo guardi sul teleschermo e lui ti parla come se fosse seduto qui accanto. Il 7 luglio 2005, dopo gli attentati alla metropolitana, la gente voleva vedere una giornalista, non una miss Italia da quattro soldi».
Un posto al Tg1 o al Tg5 lo accetterebbe?
(Risata). «Non mi hanno ancora chiamata».
E se la chiamassero?
«Valuterei. L’Italia mi fa infuriare, però ce l’ho nel cuore».
Ha idea del perché non l’hanno ancora chiamata?
«Non lo so. Non vado certo a chiederglielo».
Qual è la collega italiana che stima di più?
«Monica Maggioni».
Passata dal Tg1 a Unomattina.
«Possiede quel qualcosa di cui parlavo prima: t’induce a fidarti di lei».
Più di lei che di Luca Giurato, questo è sicuro.
«Non mi tocchi Luca che è un amico».
E fra i colleghi?
«Marco Varvello». (Era uno dei corrispondenti della Rai da Londra).
Antonio Caprarica le stava antipatico? Occhio, ché forse lo fanno direttore del Tg1.
«Marco capisce la mia italianità. Siamo coetanei. È il primo cui ho chiesto consiglio sul passaggio ad Al Jazeera. Mi ha detto: “Vai”».
Perché ha lasciato la Bbc?
«Perché mi hanno fatto un’offerta migliore».
Soldi?
«Anche. Ma non è questo il punto. In qualsiasi lavoro, quando cambi, prendi di più».
Non è detto. Quanto guadagna un giornalista inglese?
«Uno medio? Sulle 80.000 sterline lorde».
Non è poco: 220 milioni di vecchie lire. Allora, il punto qual è?
«Si sono offerti d’investire su di me nel duplice ruolo di conduttrice e di inviata in occasione dei grandi eventi».
È la prima volta che copre avvenimenti importanti?
«Per Sky News ho seguito la morte di Papa Wojtyla e il processo a Michael Jackson».
«Alla Bbc anche l’ultimo dei cronisti tiene la schiena dritta», mi ha detto Caprarica, mica come in Italia. È davvero così?
«Che significa? Non vedo tante differenze tra una Tv e l’altra. È lo stile britannico a essere incorruttibile. Ci sono regole ben precise affidate alla vigilanza dell’Office of communications, che può toglierti la licenza di trasmissione se non le rispetti».
La Bbc è il santuario del giornalismo, con quel motto del fondatore lord John Reith scolpito sul frontone: «Voi entrate in un tempio delle arti e delle scienze, dedicato alla gloria di Dio e alla diffusione della conoscenza». E lei è uscita dal tempio.
«Mai vista quella scritta. Sta sull’ingresso della Broadcasting house, mentre io lavoravo al Television center. Come giornalista sei un po’ il prodotto di te stesso. Io mi considero Barbara Serra, né la Bbc, né Sky, né Al Jazeera».
Ma può esistere un giornalismo dedicato alla gloria di Dio?
«Uhm. Mah». (Ci pensa). «Non che io abbia visto».
Il logo di Al Jazeera sembra la fiamma di una candela.
«In realtà è la penisola del Qatar, a sua volta un prolungamento dentro il Golfo Persico della ben più grande penisola arabica».
Che cosa c’è scritto nel logo?
«Non lo so, giuro. La sto scioccando?».
Un pochino.
«E perché la Rai ha per simbolo una farfalla, allora? Penso che nel nostro logo ci sia scritto appunto “la penisola”, è questo il significato in arabo di Al Jazeera».
Non sarà un versetto del Corano?
«Non credo. Controllerò e le farò sapere».
Sul contratto di Alessio Vinci, il volto italiano della Cnn, si legge che può essere licenziato «for any reason or no reason», per qualsiasi motivo o nessun motivo. Sul suo?
«Povero Alessio! Sul mio non mi pare. Però i contratti dei conduttori durano solo due anni. A Sky, se non funzioni, ti buttano fuori in due secondi netti. A me questo piace, è più onesto. Altrimenti i giovani come fanno a emergere? In Tv un giorno ci sei e il giorno dopo non più».
Quale interesse avrà Al Jazeera a trasmettere da Londra e Washington?
«Il Medio Oriente è al centro dell’attenzione di tutte le Tv del mondo, ma nessuna Tv internazionale ha la sua base in Medio Oriente. I telespettatori per la prima volta avranno una comprensione diversa delle storie. Sarà interessante vedere come la stessa notizia verrà trattata da Cnn, Bbc, Sky e Al Jazeera».
Che garanzie le hanno dato di poter svolgere il suo lavoro in libertà?
«Conosco i capi. Se uno di loro mi ordinasse, cosa assai improbabile, “Barbara, devi dire questo al posto di quello”, non lo farei mai. L’integrità per un giornalista è tutto».
Abbia pazienza, ma nel Qatar la libertà di stampa subisce severe restrizioni, i quotidiani sono stati ripetutamente chiusi per aver pubblicato articoli contrari agli interessi nazionali, la critica in pubblico alla famiglia regnante è proibita, la possibilità di associazione è limitata. E lei pensa di poter agire in piena autonomia?
«Il canale arabo è indipendente e ha spesso criticato le autorità qatariote. Quello internazionale, dove lavoro io, risponde all’Office of communications inglese».
Secondo lei l’emiro foraggia la Tv satellitare per beneficenza?
«No, ma nemmeno per ricavarci soldi. Neppure Rupert Murdoch fa i telegiornali per soldi: Sky News è finanziata dai canali a pagamento di cinema e sport del bouquet Sky».
Ma Al Jazeera non ha altri canali, fa solo news. E non ha pubblicità.
«La pubblicità verrà. Ad Hamad Bin Khalifa Al Thani interessa che il Qatar conti nella mappa geopolitica mediorientale. Non dimentichiamo che c’è Al Arabiya a farci concorrenza dal Dubai».
Siete uno strumento di propaganda, una specie di Radio Vaticana dell’Islam?
«Alla Radio Vaticana sono tutti cattolici. Ad Al Jazeera lavorano anche giornalisti ebrei. E poi che cos’è propaganda? Il Tg1, il Tg2 e il Tg3 lottizzati sono propaganda? La stessa diffidenza che gli occidentali hanno per Al Jazeera, il mondo arabo ce l’ha per Cnn, Bbc e Sky».
Diffidenza? Saman Abdul Majeed, interprete personale di Saddam Hussein, fuggito da Bagdad ha subito trovato lavoro ad Al Jazeera.
«Lo apprendo da lei».
Il vostro precedente direttore generale, Mohamed Jasim Al Ali, sospettato d’essere un agente segreto di Saddam, s’è dovuto dimettere. Idem il conduttore più celebre, Faisal Al Qassim.
«Mi pareva che Saddam l’avesse cacciata da Bagdad, Al Jazeera».
Il vostro inviato di punta, Tayseer Allouni, condannato a sette anni di reclusione in Spagna come fiancheggiatore di Al Qaida, dopo l’11 settembre fu l’unico giornalista al mondo ad avere il nastro registrato col proclama di Osama Bin Laden, l’unico a essere convocato dallo sceicco del terrore per un’intervista, l’unico a possedere il suo numero di fax.
«Chi pratica il giornalismo fearless, senza paura, spesso finisce nei guai perché si spinge a ottenere sempre di più. Hanno chiesto a David Frost se intervisterebbe Bin Laden. Ha risposto: “Il mio dovere sarebbe di fare un arresto civile”».
E lei lo intervisterebbe?
«Mi comporterei come Frost. È il dovere di ogni cittadino arrestare Bin Laden».
Non pensa che se giornali e Tv, a cominciare da Al Jazeera, la smettessero di fare da megafono a Bin Laden e ai suoi epigoni, questa terza guerra mondiale mediatica sarebbe all’80% già vinta?
«Idea interessante. Il fatto è che i filmati di Al Qaida li mandiamo in onda tutti, noi, la Cnn, la Bbc, la Rai. Se circolano su Internet, come fai a ignorarli?».
Però Bin Laden i suoi farneticanti appelli li consegna proprio a voi. Come fa? Ve li manda per corriere? Ve li riversa via satellite? Avete il suo indirizzo di posta elettronica?
«Non lo so. Lascerà una videocassetta... Tecnicamente ci sono mille maniere. Una mia collega della Bbc in Irlanda mi ha raccontato che l’Ira comunicava con lei in codice. I giornalisti vivono in una zona grigia. Non sempre ma spesso».
La videocassetta dell’uccisione di Fabrizio Quattrocchi però non l’avete trasmessa. C’è voluto il coraggio del direttore del Tg1, Clemente Mimun, per vederla.
«Decisione editoriale. Io non c’ero».
Lei che avrebbe fatto?
«Per quale pubblico? In Italia, nel mondo arabo o in Inghilterra? Dipende da che pubblico hai. Al Jazeera è un canale arabo per il popolo arabo».
Un uomo che grida: «Vi faccio vedere come muore un italiano», mentre lo ammazzano, non è un documento di valore universale?
«In Irak di eroi ne sono morti tanti. Il direttore del Tg1 ha fatto bene».
Per «eroi» intende gli attentatori suicidi, quelli che nei vostri notiziari chiamate «martiri»?
«Non è più così da un paio d’anni. Stiamo lavorando a una terminologia da usare nel canale internazionale».
Non li chiamerete mai più «martiri»?
«Non glielo posso dire. È una decisione che prenderemo tutti insieme. Comunque se avessi il sospetto che Al Jazeera intrattiene qualche rapporto con Al Qaida, non ci lavorerei. Frost ha telefonato ad alcune sue fonti statunitensi, prima d’accettare l’assunzione, proprio per sapere se vi fossero legami fra terroristi e televisione qatariota. Gli americani lo hanno tranquillizzato. Siccome io non ho contatti né col Pentagono né con la Cia, mi fido di lui».
Secondo lei vi saranno altri attentati a opera di Al Qaida?
«Credo che siano quasi inevitabili».
Le conduttrici di Al Jazeera hanno l’obbligo del chador?
«È una scelta che viene lasciata alla libertà individuale. Io non lo indosserò. Sono cattolica. Non vado lì a far finta d’essere musulmana».
Yvonne Ridley, senior editor del sito in inglese di Al Jazeera, s’è convertita all’Islam. Vede questa possibilità nel suo futuro?
«Figurarsi.

Ho lasciato un ragazzo israelita dopo tre anni di fidanzamento perché voleva che mi convertissi all’ebraismo».
Ritiene che sia in atto uno scontro di civiltà fra Islam e Occidente?
«No, è in atto uno scontro fra estremisti di due civiltà».
(338. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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