Londra - Infatti è molto rock presentarsi così. Quando Jon Bon Jovi entra nella saletta dello sciccosissimo Mandarin Oriental di Hyde Park è terreo - accidenti quanto -, lo sguardo immobilizzato dalle occhiaie e voglia di parlare zero. E pluf, si concede al prezioso divano di raso che docilmente lo inghiotte subito. «Arrivo adesso dal Giappone, ormai dormo quando sono sveglio e sono sveglio quando dormo», farfuglia. Idem quelli della sua band, l’unico appena vispo è Richie Sambora forse perché è tornato a nuova vita dopo l’ennesima disintossicazione. Hanno appena pubblicato dodici nuove canzoni in un cd intitolato The circle «perché così ci ha suggerito una nostra amica». Boh. Comunque sia, meglio di così, contagiosi e arrembanti, i Bon Jovi non sono stati neanche quando erano pivellini spaccatutto. La passione, signori. E chissà come fanno a mantenere da ventisei anni la stessa voglia di rock godurioso e patinato, quello di You give love a bad name, per intenderci, o di It’s my life che basta sentirli una volta sola per ricordarsi un’epoca, un pezzo di vita, un amore o semplicemente la voglia di divertirsi e al diavolo il resto.
Però, Jon Bon Jovi, qualcuno potrebbe dire che siete sempre uguali.
«In realtà il nostro precedente album era ispirato ai suoni country di Nashville ed è stato lo stesso un grande successo. Diciamo che è una evoluzione che ha tante fasi diverse, altro che tutto uguale».
Di sicuro adesso vi vestite diversamente.
«Ma rimpiangiamo gli anni ’80 quando indossavamo gli spandex colorati».
Ora si chiamano leggings e li vestono le donne.
«Periodo d’oro quello. Capelli cotonati, voglia di farcela, tanti sogni».
Tutti realizzati. Come avete resistito senza sbriciolarvi?
«Semplice: ciascuno della band ha goduto della compagnia degli altri».
Facile a dirsi: avete venduto 130 milioni di dischi e suonato per 34 milioni di fan in 50 nazioni. Ma altrimenti sareste ancora qui?
«Di sicuro non mi aspettavo un successo così. Ma forse saremmo ancora qui. Non sappiamo fare altro che musica e non siamo le tipiche rockstar piene di lusso».
A proposito, ieri sera ha cantato il singolo «We weren’t born to follow» davanti ai capi di Stato a Berlino per celebrare la caduta del Muro.
«Io ero là quando è caduto. E mi ricordo bene di essere andato a scrostarne un pezzetto da portare via. E tre anni prima, nel 1986, avevo incontrato un ufficiale al Checkpoint Charlie: avevamo la stessa età ma sembravamo così lontani. A Berlino c’era gente che era straniera in famiglia. Perciò We weren’t born to follow parla soprattutto di quel winds of change, di quel cambiamento».
Adesso lei ha 47 anni e altre preoccupazioni. E ne parla in «Work for the working man», lavorare per i lavoratori.
«Un giorno vedo in tv la storia di un paesino dell’Ohio devastato dalla chiusura degli uffici locali della Dhl. E mi sono venuti fuori i versi».
Bon Jovi, lei fa politica?
«Questa è una canzone sociale, non politica, come il resto dell’album. E David Axelrod, il consigliere capo del presidente Obama, ha voluto incorniciare il testo e appenderlo nel suo ufficio alla Casa Bianca».
A proposito, Obama?
«È un tipo impegnato».
Quantomeno.
«Si è creato un’agenda aggressiva: guerra, sanità e via dicendo. L’America ha un’altra opportunità e io tengo le dita incrociate».
Lei stupisce. Una volta era un rockettaro gaudente e un sex symbol planetario.
«Ma in realtà di questo non me ne è mai fregato nulla e amo la stessa donna. L’ho conosciuta al liceo e l’ho sposata vent’anni fa».
D’altronde le origini sono siciliane. Vero nome: John Francis Bongiovi, figlio di un parrucchiere di Sciacca, provincia di Agrigento.
«Le mie origini sono chiare.
E com’è?
«Piena di operai. Alla fine si può andare dove si vuole, ma non bisogna mai dimenticare da dove veniamo. E così ho fatto io».
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