James Cotton: il leone dell’armonica

Antonio Lodetti

Con il tour di James Cotton - in giro per l’Italia e al Blues festival di Lucerna - va in scena la storia dell’armonica blues. Nelle sue note lancinanti si sente l’eco dei natii campi di cotone del Mississippi e il passaggio al furore urbano del suono di Chicago, dove per anni militò nella mitica band di Muddy Waters prendendo il posto di Little Walter. A quel tempo faceva il lavamacchine (anche se aveva inciso discreti successi per la Sun di Sam Phillips), al fianco di Waters maturò lo stile brutale, terragno, di ruggente abbandono che a tutt’oggi caratterizza il suo percorso stilistico. Non canta più - la voce insanabilmente arrochita dal fumo e dall’alcool - ma, superati i settant’anni, soffia ancora nell’armonica con passione, fondendo e personalizzando l’eloquenza rurale del maestro Sonny Boy Williamson II con il ruvido lirismo della Chicago postbellica. Così ci dà dentro a pieni polmoni, passando dai tempi veloci a quelli più meditati, colora le frasi impregnandole di country blues e di boogie, saltabeccando dai toni acutissimi a quelli più gravi. La musica del diavolo lo trascina facendogli vincere lo sforzo e la fatica fisica (al Blue Note di Milano ha tenuto due concerti al giorno per tre sere), tanto che sul finale si scatena in una corroborante Sweet Home Chicago (classico di Robert Johnson reso famoso dai Blues Brothers) e in una veloce Got My Mojo Working omaggio a Waters.

Un vecchio leone che catalizza la scena da solo, mentre i suoi partner (gli assai più giovani Darrell Nulish alla voce, il chitarrista Rico McFarland e il pianista Dave Maxwell) si dedicano ad un accompagnamento di routine.

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