Jim Hood, il procuratore che fa tremare i colossi

Grandi assicurazioni, case farmaceutiche e perfino Google sono stati messi in ginocchio

Roberto Pellegrino

da Jackson (USA)

Entrando nel «Magnolia State» da Nord, guidando sull'asfalto umido della Interstate 55 che scende giù dritta da Memphis come una spada e attraversando le prateria che il tiepido inverno ha colorato di tabacco, ci si imbatte nel cartello folcloristico di «Welcome» che introduce il Mississippi. Un «benvenuto» cui qualcuno ha aggiunto a mano: «Ora tornatevene a casa».

In uno stato repubblicano fino al midollo, serbatoio del consenso a Trump, è un miracolo che per sedici anni filati, Jim Hood, un democratico, sia stato il 39mo Procuratore generale. «Sono stato per anni l'unico dipendente statale democratico», dice col tipico accento cantilenante del Sud, lui che è un piccolo «local hero» per avere dichiarato guerra a tutti i mali del secolo, vincendo quasi sempre. Oltre a eliminare la violenza domestica, tutelare le classi povere dai potentati economici, ha frugato nel passato, quello razzista. Avvocato pignolo e cocciuto, leale servo dello Stato, permaloso come i «terroni» del Dixieland, un giornalista del Washington Post l'ha paragonato al nostro Antonio Di Pietro. Mentre per El País è il giudice Baltasar Garzón versione yankee. Hood, 57 anni, un democratico, a volte liberale, contrario all'aborto, alle adozioni gay, però favorevole alla diminuzione delle armi, stipendio da 120mila dollari lordi annui, eletto miracolosamente per quattro volte di seguito procuratore in mezzo ai repubblicani più testardi d'America, spiega così a Il Giornale la sua terra. «Questa è una delle zone più conservatrici e cattoliche del mondo. Per capire quanto qui si è attaccati al passato, basta vedere che abbiamo ancora la bandiera della Confederazione, un'unione di stati che durò soltanto quattro anni e un mese, sconfitta nel 1865 nella Guerra di Secessione».

Esistono, quasi da un secolo, le leggi anti-discriminazione, ma sembrano fluite via come l'acqua sotto i ponti dell'«Old Man River», il Mississippi. La brutta fama di un passato segregazionista è dura a scomparire quando i suoi peccati non sono mai stati espiati pubblicamente, ma accettati. Così i neri sono rimasti per la maggior parte poveri, a carico dei sussidi sociali. Le fabbriche hanno chiuso a metà anni Novanta, emigrate in Cina, l'agricoltura produce il 70 per cento in meno rispetto al 1950, e molte fattorie dei contadini falliti sono ritornate alle banche. E in uno scenario così desolante, Hood ha ridato fiducia a molti. «Quando nel 2005 Katrina devastò le coste del Mississippi, causando 25 miliardi di dollari di danni, molta gente perse casa e lavoro, e pur avendo sottoscritto le dovute assicurazioni, rischiò di non avere alcun indennizzo. Non potevo non intervenire». Hood diede una bella lezione ai giganti che non volevano rimborsare e istruì il processo: furono condannati a pagare ogni singola tegola e asse di legno portata via dalla furia dell'uragano. Poi bacchettò le società farmaceutiche, sbugiardando una truffa dove le medicine, per gli assicurati, quadruplicavano il prezzo in modo fraudolento. Ha persino fatto condannare Google perché istiga alla violazione del copyright. Hood in sedici anni s'è inimicato tutti. Proprio tutti. Qualcuno ha tentato di corromperlo, molti di processarlo, lui ne è uscito sempre candido con la voglia di riprendere a bastonare la vecchia politica reazionaria di una regione che ancora combatte «i comunisti che vogliono annientare gli uomini bianchi di Dio», spiega ridendo.

Il procuratore generale in America ha anche funzioni di pubblico ministero, segue le causa nazionali e grandi processi penali. Hood ha esercitato il suo potere su ogni metro quadrato del Mississippi, sempre dalla parte degli sconfitti. Poi lo scorso 14 gennaio si è dimesso. Ad agosto aveva vinto le primarie democratiche per la poltrona di governatore, ma poi ha perso le elezioni. Lui, il giorno dei risultati, non se l'è presa più di tanto, ha imbracciato uno dei suoi fucili da collezione ed è andato a sparare alle vecchie bottiglie nel retro di casa.

Il suo capolavoro da procuratore generale è aver scritto la parola fine a una vicenda universalmente nota, la morte di tre ragazzi attivisti per i diritti civili che da quarant'anni attendevano giustizia. «È una pagina vergognosa della storia americana», spiega Hood, «ed è più vergognoso che nessuno dal 1964 abbia trovato voglia e tempo per ribaltare una sentenza viziata dall'odio razziale». Voglia, tempo, ma anche molto coraggio per dare una lezione a quei «good old boys», i bravi ragazzacci bianchi e ricchi del profondo Sud. «Quelli che recitano l'odioso motto «Once a slave. Always a slave»: schiavo una volta, schiavo per sempre». Il ragazzaccio che aveva un conto aperto con la Giustizia, era Edgar Ray Killen, accusato nel 1964 di avere piantato due proiettili in testa a Michael Schwerner, ebreo, ed Andrew Goodman, cristiano, due universitari bianchi venuti da Chicago per aprire una scuola per i figli dei braccianti neri. Era imputato anche di avere torturato a morte lo studente nero James Earl Chaney. Quando il Mississippi restituì i corpi dei tre disgraziati, il presidente Lyndon B. Johnson mandò l'FBI e il caso divenne nazionale, se non mondiale. La storia ha ispirato il film Mississippi burning di Alan Parker. Nel 1967 ci fu un processo farsa: Killen fu prosciolto, sette furono condannati al reato minore di «violazione dei diritti civili» dei morti ammazzati, l'equivalente di condannare per mobbing un uomo che stupra e sgozza una donna. Trentanove anni dopo, Hood riaprì il caso e fece condannare a tre ergastoli il 79enne Killen, ex capo del Klu Klux Klan.

Il suo prossimo capolavoro sarà riportare un democratico alla Casa Bianca, «Forse nel 2024», dice con riserbo, convinto che Trump sia già al suo secondo mandato. In questa terra così grassa, che farebbe germogliare alberi di plastica, il passato non si ripete, ma può far rima col presente.

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