José Saramago: il pastorello triste che diventò il più lirico dei Nobel

Poeta e romanziere raffinato restò sempre legato alla sua infanzia trascorsa in un villaggio sperduto. Ecco l’origine della sua poetica e del suo radicalismo

José Saramago: il pastorello triste che diventò il più lirico dei Nobel

Ora che gli occhi malinconici di José Saramago si sono spenti per sempre possiamo tornare a leggere la sua ampia produzione, in gran parte riunita nei due volumi dei Meridiani Mondadori, dove racconti, romanzi noti e meno noti, aiutano a farci capire il lungo cammino percorso dal grande scrittore portoghese.

In questo senso la biografia può servire a spiegare la radicalità della posizione laica e dogmatica dell’autore, anche in epoche recenti di traumatiche cadute ideologiche. Non dimentichiamo la sua infanzia dura e povera, vissuta nello sperduto villaggio di Ribatejo (dove nasce nel 1928), e la vita solitaria ed errabonda di pastorello di porci accanto alla mitica figura del nonno analfabeta, elevato a modello di saggezza popolare. Tutto ciò poteva spingerlo verso una letteratura di tipo naturalistico, come accade nel primo romanzo Terra del peccato (1947), poi rifiutato, ma Saramago avverte subito la sua predisposizione per la favola e il mito, venata da un sottile e radicato pessimismo, ricco di pungente ironia. Lo humour e la fantasia sono ingredienti naturali della sua scrittura, presenti, accanto al suo impegno di «ateo militante», fin dal libro Manuale di pittura e calligrafia (1977), che racconta la storia di un pittore che a un certo punto decide di realizzare un quadro per il committente e uno per se stesso. La prosa moderna di Saramago è composta di dialoghi che s’intrecciano e si confondono in una lingua monologante, interiore, che accoglie una varietà di timbri e accenti diversi del lessico popolare. Con il romanzo Una terra chiamata Alentejo (1980) - un grande affresco del Portogallo contadino e latifondista - fa ingresso in modo tumultuoso l’oralità e il fantastico; seguono i libri barocchi Memoriale del convento (1982) e L’anno della morte di Ricardo Reis (1984), che fanno conoscere lo scrittore in tutto il mondo: due grandi quadri storici dove la profusione del colore, l’eccesso del contenuto e la straordinaria immaginazione, insieme alla pregnante forza narrativa della lingua, sono elementi di straordinaria efficacia che affascinano il lettore.

Della vasta produzione (romanzi, racconti, saggi, poesie) ricordiamo Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991) che affronta, da una posizione dichiaratamente atea, la figura di Cristo vista come espressione dell’autoritarismo che imputa al Padre le sofferenze del Figlio. La tappa successiva, segnata da una fase di riflessione e inquietudine, è costituita dal romanzo Cecità (1995). Il racconto, basato sull’esplosione di una cecità collettiva, rappresenta una grande metafora che opera all’interno dell’individuo fino a trasformarlo in un essere maturo e cosciente. Il valore rigenerante è dovuto al rovesciamento degli effetti causati dalla menomazione, che non sono di oscuramento bensì di un candore luminoso che obnubila la vista cancellando le forme oscure del mondo esterno. Si tratta di un’eloquente parabola che trasferisce sul piano metafisico le ragioni di un malessere generale. Saramago chiude la storia con il ritorno alla normalità aprendo alle infinite possibilità di lettura di noi falsi vedenti. Tutti i nomi è del 1997 - l’anno precedente all’assegnazione del Premio Nobel - e si svolge davanti all’immenso, emblematico schedario di nomi dell’Anagrafe. Il racconto intreccia storie diverse creando la sensazione di una minaccia incombente, una terribile punizione che sta per cadere sul solitario scritturale José, colpevole di essersi imbattuto nel formulario di una donna sconosciuta, di cui va alla ricerca e si innamora, sfidando le regole ferree dell’Autorità. L’ultima sua sortita nel mondo cartaceo dei defunti, con una torcia in mano, rinnova il mito classico del viaggio nell’Ade: viaggio alla ricerca del tempo, della vita e dell’amore perduto. Seguono poi i libri La caverna (2000) e L’Uomo duplicato (2002); quest’ultimo, è la storia di un professore stanco e amareggiato, incline a chiudersi e a interrogarsi sul significato e gli enigmi della vita, finché un giorno da una videocassetta irrompe l’immagine del suo clone che crea infinite possibilità ed opzioni di vita immaginaria. Anche il romanzo Le intermittenze della morte (2005) continua la linea precedente di critica nei confronti delle grandi istituzioni religiose e politiche. Analogo è il discorso che s’intreccia e si sovrappone, in una prosa lenta che copre ogni possibile interstizio di spazio e tempo. Nella breve trama del racconto Saramago giunge al paradosso estremo di coinvolgere la stessa presenza della morte che, improvvisamente, sospende la sua attività. Il libro successivo, Le piccole memorie, del 2007, ricostruisce la stagione dell’infanzia in cui compare la mitica figura del nonno analfabeta. Il flusso dei ricordi è discontinuo, ma la scrittura annoda e cuce mirabilmente i vuoti lasciati dal tempo e dalla memoria.

Per concludere, nell’opera di Saramago, sempre segnata da una volontà di accusa e critica pungente nei confronti dei rappresentanti del potere, l’ironia e la metafora costituiscono una grande risorsa stilistica in grado di trasformare la denuncia sociale elevandola a simbolo universale.

Ricordiamo i temi della peste, della cecità, della caverna del mito platonico, della confusa enciclopedia dei nomi, infine dell’uomo duplicato dei suoi racconti: moderne allegorie che scandiscono una visione pessimistica del mondo, segnato dalla violenza e dall’ingiustizia.

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