Joyce, Proust e Picasso alla cena delle beffe

Un libro rievoca la storica serata all’Hotel Majestic di Parigi con i grandi geni dell’epoca. Incapaci di dialogare tra loro...

Joyce, Proust e Picasso alla cena delle beffe

I due ospiti più attesi della serata arrivarono che era già mattina. Il primo, James Joyce, era mal vestito, molto nervoso, e troppo ubriaco. Il secondo, Marcel Proust, era elegante, molto a suo agio e troppo malato. Entrambi famosi, l’uno era però agli esordi e l’altro all’apice. L’Ulisse di Joyce era uscito a Parigi, in inglese, appena due mesi prima, per merito di un piccolo editore amico e perché fosse pubblicato oltre Manica ci sarebbero voluti altri 14 anni: romanzo «osceno» per la censura britannica. Della Recherche di Proust erano già apparsi tre volumi, a uno di essi era stato assegnato il «Goncourt», il principale premio letterario francese, era stampato da Gallimard, l’editore più importante.

In quella sera di maggio del 1922, Marcel aveva cinquantun’anni e gli restavano appena sei mesi da vivere, James dieci anni di meno e altri venti ancora davanti. A metterli intorno allo stesso tavolo era stata la tenacia e l’ossessione per le celebrità di una coppia di ricchi, colti e cosmopoliti inglesi, Violet e Sidney Schiff. Era stata loro l’idea di un party per festeggiare la prima di Le Renard di Igor Stravinsky, di cui Sergei Diaghilev era l’impresario e la compagnia dei Balletti russi l’interprete. Come luogo era stato scelto l’hôtel Majestic, preferito al Ritz perché permetteva la musica anche dopo mezzanotte e mezzo.
Una cinquantina gli invitati: Stravinsky e Diaghilev, naturalmente, Pablo Picasso, che di molte esecuzioni dei Balletti russi aveva disegnato le scenografie e che di una delle sue danzatrici, Olga Koklova, era allora il marito, Bronislava Nijinska, coreografa del Renard e sorella del grande Vaslav Nijinsky che di Diaghilev era stato l’amante, critici d’arte come Clive Bell, cognato di Virginia Woolf, pianiste come Marcelle Meyer, a cui Erik Satie aveva dedicato il suo Primo Notturno, la crème della nobiltà ancien régime, i Polignac, i Gramont, i Clermont-Tonnerre, principi, conti, duchi che si facevano un punto d’onore nello schifare la politica repubblicana, amare l’arte e infischiarsene della morale borghese. Elisabeth de Clermont-Tonnerre, per citarne un solo rappresentante, era allora l’amante di Liane de Pougy, ex cortigiana, aveva convissuto con la scrittrice americana Natalie Clifford Barney, traduceva Keats, commissionava balletti a Honegger, simpatizzava per il bolscevismo, aveva una brillante vena di memorialista.

A quel ricevimento un po’ tutti si conoscevano, se non di persona almeno di nome, alcuni erano fra loro amici, molti in compenso si detestavano, c’era una sorta di omogeneità anagrafica: Picasso, Stravinsky e Joyce erano coetanei, lo stesso Proust e Diaghilev. Era il party in cui si celebrava la modernità: nell’arte, nella musica, in letteratura, ma gli alfieri che la rappresentavano, pur rispettandosi erano consci della propria importanza e ci tenevano alla propria unicità.

Picasso portava una bandana catalana messa di traverso sulla fronte, per prendersi gioco delle tenute da gran sera, appariva coriaceo, si sentiva inattaccabile, si rifiutava di parlare di pittura. Joyce era a disagio per l’opulenza del ricevimento, la propria miseria dignitosa, l’eccesso di luci che gli affaticava gli occhi stanchi, l’eccesso di champagne che a un certo punto lo fece russare da seduto. Diaghilev salutava tutti, ma non dava retta a nessuno, preso dal suo ruolo di anfitrione. Stravinsky era ancora teso per la serata: Le Renard era stato sì applaudito, ma non in modo entusiasta. Solo Proust, che era il più mondano, ma anche quello che dalla mondanità traeva la propria linfa creatrice, provò in qualche modo a interagire. «Senza dubbio amate Beethoven» disse a Stravinsky. «Io detesto Beethoven» si sentì rispondere. «Ma, caro maestro, certamente le sonate e i quartetti dell’ultimo periodo...». «Peggio degli altri» esplose il musicista. Con Joyce il risultato fu ancora più disastroso.
Una notte al Majestic (Sylvestre Bonnard, pagg. 307, euro 24, traduzione di Giuseppe Bernardi) è il racconto che Richard Davenport-Hines fa di quella serata, tanto unica quanto singolare, cinque convitati di genio che fecero a gara nel non scoprirsi gli uni con gli altri, incontro-scontro, su cui in seguito ciascuno disse la sua, diretti interessati e testimoni oculari, testimoni di seconda mano e semplici raccoglitori di pettegolezzi. Ma è anche, attraverso l’analisi dell’opera proustiana, la ricostruzione del clima di una capitale culturale che in quel 18 maggio del 1922 celebrava il suo punto più alto: la Parigi cosmopolita, la città della «generazione perduta» degli scrittori e delle avanguardie pittoriche, il mito della Belle Époque pre-bellica che sembrava rivivere negli «anni folli» postbellici mentre invece ne celebrava definitivamente la scomparsa e metteva le premesse per la successiva decadenza. Ben documentato (è un peccato però che non si sia pensato a un indice dei nomi e ci sia stata una disattenta correzione delle bozze), Una notte al Majestic è insomma uno spaccato d’epoca per molti versi esemplare, dove si mischiano alto e basso, impulsi artistici e smanie di arrivismo, salotti nobiliari e case chiuse, amori esemplari, vizi borghesi, miserie proletarie.

Con Joyce fu ancora più disastroso, avevamo scritto poc’anzi. Uno dei «trucchi» di quest’ultimo per evitare di fare critiche e/o complimenti, era quello di fingere ignoranza sul tema. «Non ho mai letto la sua opera mr Proust». E quindi, e di rimando, «Non ho mai letto la sua opera monsieur Joyce»... Rimessa la palla al centro, Proust ci riprovò, ma, come racconterà il suo interlocutore, era tutto un chiedere conoscete la principessa tale, la contessa talaltra, madame vattelapesca, a cui veniva sempre opposto il monosillabo «no»... Un momento di tregua avvenne quando il francese si scusò per essere arrivato così tardi: era a causa del suo mal di fegato, di cui cominciò a enumerare i sintomi. «Io ho mal di testa ogni giorno e i miei occhi vanno malissimo ribattè l’irlandese». Per un po’ ci fu un alternarsi di diagnosi.

La notte al Majestic aveva ormai virato verso l’alba e il «malato Proust» invitò i coniugi Schiff a proseguire da lui, nella sua casa di rue Hamelin, poco lontana dall’albergo. Fuori ad attenderli c’era la vettura di piazza guidata dal marito della sua domestica e ci salì anche Joyce. I motivi per cui questi intendesse continuare una conversazione che non aveva fatto altro che sabotare possono essere molteplici. Come invitato di riguardo degli Schifff, Joyce si faceva probabilmente un punto d’onore a ricambiare con la sua presenza, come è tipico di chi ha bevuto molto: c’era un po’ l’ostinazione dell’ubriaco. Come scrittore consapevole della «leggenda» del rivale, c’era la curiosità di vedere «quel comodo appartamento pavimentato di sughero e col sughero alle pareti perché ci fosse silenzio», radicalmente diverso dal suo, così rumoroso che spesso si era chiesto come facesse a scrivere... C’era invidia, insomma, non per l’arte, Joyce non si sentiva secondo a nessuno, ma per il benessere che quell’arte circondava, la stessa invidia che, parlando di Picasso, gli avrebbe fatto dire: «Non ha tanto più nome di me, suppongo, eppure guadagna 30mila franchi in poche ore di lavoro. Io non valgo un penny a riga, e non riesco a vendere neppure un libro speciale come Dubliners».

In macchina, Proust non smise di parlare con gli Schiff, Joyce continuò a stare zitto, ma si accese una sigaretta e tirò giù il finestrino, il che per l’altro, asmatico e terrorizzato da ogni corrente d’aria, era come una pugnalata. Fortunatamente il tragitto era brevissimo, l’autore della Recherche scese rapido per poi infilarsi nel portone di casa con la signora Schiff, ma prima di scomparire disse con amabile gelo all’autore dell’Ulisse: «Lasci che la mia macchina la riporti a casa»... Sidney Schiff rimase in strada a convincere il riottoso irlandese che era la soluzione migliore...

Gli ultimi mesi della vita di Proust furono una corsa contro il tempo, mettere la parola fine alla sua opera prima che la morte mettesse fine alla sua vita. Usciva sempre meno, poi non uscì più. Scrisse Mauriac che «a vederlo disteso sul letto, non si sarebbe mai pensato che avesse cinquant’anni, ma forse neanche trenta, come se il tempo non avesse voluto toccarlo, lui che l’aveva addomesticato e vinto».

Ai suoi funerali, raccontò Maurice Martin du Gard, andò il tout Paris: «Duchi, principi, ambasciatori, membri del jockey club, frequentatori del turf, ebrei russi d’alto bordo, omosessuali parigini con le unghie laccate... e tutti gli scrittori che contavano o che avrebbero contato in futuro». C’era anche James Joyce. «Non mi era sembrato così malato».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica