Da Kant ai tecnocrati, un sogno nato dalla volontà di pace incagliato nel dirigismo

Le origini dell'Unione europea affondano nella filosofia e nella storia. Ma il risultato...

Da Kant ai tecnocrati, un sogno nato dalla volontà di pace incagliato nel dirigismo

Il progetto volto a unificare l'Europa ha rappresentato fin dall'inizio il punto di convergenza di ideali e interessi. Sul piano filosofico si tende a far risalire tale processo a un testo di Immanuel Kant del 1795 (Per la pace perpetua) in cui il filosofo tedesco suggeriva di dirigersi verso un ordine di Stati repubblicani tra loro federati. In Kant si delinea un federalismo che non ha primariamente a cuore la più compiuta indipendenza di ogni comunità, ma punta invece a unire realtà diverse per porre fine alle guerre.

Nell'Ottocento questa tesi riemerse a più riprese, soprattutto di fronte al nazionalismo e ai conflitti che generò. Lo stesso celebre dissidio tra James Lorimer e Johann Kaspar Bluntschli, negli anni Settanta del diciannovesimo secolo, opponeva soltanto due modi diversi di coordinare sempre più strettamente le nazioni europee e in prospettiva il mondo intero.

In qualche caso una certa idea di Europa politica non era neppure in contrasto con una visione nazionale: un autore molto avverso al federalismo come fu Giuseppe Mazzini a fianco della Giovine Italia creò pure la Giovine Europa, al fine di sviluppare una fratellanza tra popolazioni irredentiste che sapesse poi costruire istituzioni comuni.

La proposta di unire gli europei entro un'unica giurisdizione tornerà a essere avanzata dopo il disastro della Prima guerra mondiale. Tra gli altri, pure Luigi Einaudi formulerà una serie di tesi in tal senso, nel momento in cui la Società delle Nazioni si sforzava di favorire la pace globale. Alla base del suo europeismo c'era l'eliminazione delle barriere doganali, muovendo dalla convinzione (non necessariamente fondata) che per avere un solo mercato si debba avere un unico potere sovrano.

Tra le due guerre le proposte di unificazione dell'Europa furono numerose. Tra le altre è da ricordare quella di Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, che tra il 1922 e il 1923 creò il movimento Unione Paneuropea e pubblicò un volume che ebbe notevole eco: Paneuropa. Le sue iniziative attirarono l'attenzione di José Ortega y Gasset, Denis de Rougemont, Thomas Mann e altri ancora. Anche se dapprima marginalizzata dal trionfo dei fascismi, quella visione apparirà attuale all'indomani del 1945, quando proprio una serie di proposte di Kalergi (a partire dal progetto di unificare il carbone e l'acciaio di Francia e Germania) saranno usate per avviare il cammino di quella che ora è l'Unione europea.

È chiaro come le ragioni intellettuali che spinsero a costruire un'Europa sovrastante le varie nazionalità fossero numerose: e se un ruolo centrale era occupato dalla pace, non mancava chi riteneva che unire il continente avrebbe affrancato l'economia dalle chiusure protezionistiche, oppure (in una direzione assai diversa) avrebbe dato vita a una potenza globale in grado di farsi egemone.

Gli argomenti di filosofi e saggisti tornano a più riprese anche nelle analisi di quanti a partire dalla Ceca (Comunità europea del carbone e dell'acciaio, del 1951) hanno concretamente edificato le istituzioni comunitarie. E se in quel primo passo era forte l'esigenza di ricostruire un rapporto positivo con la popolazione tedesca, l'idea che un'Europa unita fosse una garanzia di concordia era allora molto condivisa (anche se poi, nei fatti, negli ultimi ottant'anni non abbiamo più avuto guerre nell'Europa occidentale in ragione dell'affermarsi di sensibilità e culture orientate alla pace).

Uno dei principali artefici dell'accordo del 1951, Jean Monnet, aveva chiaro come un'Europa politica dovesse nascere per iniziativa di piccoli gruppi di esperti, uomini politici, alti funzionari e imprenditori. La sua era una visione tecnocratica molto radicata nella cultura centralista di marca francese. Tutto ciò, a ogni modo, si rivelerà sempre più in sintonia con gli interessi di larga parte delle classi dirigenti dei Paesi europei.

Anche se retoricamente è descritta quale strumento volto a tutelare la concordia tra le nazioni, nei fatti l'Europa politica è un progetto che punta a cartellizzare i vari Stati, sempre meno chiamati a competere. E non a caso da decenni a Bruxelles si opera verso una crescente armonizzazione delle regole e delle imposte. In un'Europa divisa e plurale, spostarsi da Lione a Monaco significa trovare nuove opportunità, ma questo non è più vero se le norme sono prodotte in modo uniforme, sulla base di direttive comunitarie.

Per sfuggire alla globalizzazione e alla concorrenza, le classi politiche europee stanno allora svuotando di potere le vecchie capitali, tentando di costruire un Super-Stato che eviti di fare i conti con il fallimento epocale del Vecchio Continente. Va aggiunto d'altra parte che quando l'europeismo prese le mosse, l'Europa si concepiva se non come il mondo stesso, quanto meno come il centro dell'universo: dopo decenni di declino e di crescente marginalizzazione, però, la situazione è oggi del tutto differente.

Il vecchio statalismo dirigista della tradizione giacobina d'Oltralpe ha quindi posto le premesse per un interventismo continentale uniformante. In questo senso, non bisogna mai dimenticare come, nel mondo attuale, l'Europa è l'area in cui è più radicata la convinzione che il potere debba prendersi cura di tutti noi in ogni momento dell'esistenza.

L'identità europea contemporanea, insomma, è sempre meno legata all'eredità del mondo greco e ai principi della tradizione giudaico-cristiana, ma poggia invece sulla celebrazione del welfare State e dei meccanismi di regolazione sociale che esso implica. Ed è un dato, questo, su cui varrebbe la pena di riflettere un po' di più.

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