Katrina 2, fuga da New Orleans

Quanto sono fragili le istituzioni, anche le più collaudate, di fronte agli assalti o anche solo alle minacce della Natura. Non era mai successo, per esempio, che esse sconvolgessero i riti e i ritmi della campagna elettorale negli Stati Uniti. Non i discorsi e i comizi, ma proprio le cerimonie che conferiscono legittimità al tutto. La Convenzione nazionale repubblicana si riunisce oggi mutilata a Minneapolis e St. Paul, le «città gemelle» del Minnesota; ma non si sa come, certamente a ranghi incompleti e con un’attenzione nazionale che minaccia di crollare drasticamente pochi giorni dopo il record di spettatori - 38 milioni - attratti dal discorso di auto incoronazione di Barack Obama a Denver. Non sarà presente, al Congresso del suo partito, quello che consacrerà il suo successore, il presidente Bush e neppure il vicepresidente Cheney. Non ci saranno perché il dovere, la necessità, anche l’interesse politico li mobilitano su un altro fronte: la stagione dei grandi uragani pare aver preso ancora una volta di mira New Orleans e, al di là delle dimensioni umane della terribile tragedia di tre anni fa - proprio di questi giorni - nessun governo americano può permettersi una ripetizione, anche su scala molto minore, di quella catastrofe che fu legittimamente sentita come l’equivalente della strage del settembre nero di quattro anni prima a Manhattan. Non proprio nel conteggio delle vittime, quanto in quello delle distruzioni. Crudelmente ferita, New York sopravvisse. New Orleans minacciò di scomparire e l’ipotesi potrebbe riaffacciarsi se ci sarà un bis. La cui responsabilità verrebbe ad ogni modo accollata alle autorità politiche, a cominciare dal presidente, dalla sua Amministrazione, impropriamente ma inevitabilmente anche al suo partito, a due mesi dalle elezioni per la Casa Bianca. A ragione o a torto Bush fu accusato allora di imprevidenza, assurdamente se ci si riferisce alle possibilità di evitare il disastro, con qualche ragione a proposito della lentezza nei soccorsi. L’attacco diretto dell’uragano fu relativamente modesto; ma è dopo che cominciò a crollare tutto, a cominciare dalle dighe, che si sgretolarono e diedero via libera all’inondazione. La catastrofe di New Orleans segnò anche, in gran parte immeritatamente, il tracollo della popolarità di Bush fino a quel momento soltanto erosa dalle delusioni della guerra in Irak. L’inondazione portò, paradossalmente, al ripudio di quell’iniziativa militare, da cui l’amministrazione Bush non si è ancora riscattata neppure da quando da Bagdad sono finalmente arrivati dei successi. I vasi comunicanti delle emozioni pubbliche seguono una loro anatomia peculiare. Bush, che sta per lasciare la Casa Bianca ma cerca un suo posto nella storia e si batte per avere un successore che non lo sconfessi del tutto, aveva bisogno di dare un segnale: questa volta New Orleans conta più di tutto il resto. Il presidente deve potersi concentrare nel prevenire il disastro e sminuirne la portata, non deve avere altro per la testa. Non può decentemente «dimenticare» il vento e l’acqua alta del Golfo del Messico per l’aula dei discorsi e delle feste pre elettorali di Minneapolis-St. Paul. Fa sapere che non ci va perché altrove lo richiama il dovere. Fa una bella figura, sottolinea la gravità della crisi (e nelle crisi egli ha in genere dato il suo meglio), si sottrae a nuove, probabili critiche, spunta la spada delle recriminazioni che i democratici non mancheranno di impugnare. Mette «il Paese prima del partito».
Che poi la cosa sia probabilmente anche nell’interesse del partito può essere presentata come una conseguenza, una «ricaduta» benefica. A lungo considerati sicuri perdenti, i repubblicani hanno trovato in John McCain, «contestatore» interno più apparente che reale, un leader improbabile ed efficace, che almeno per quanto riguarda la Casa Bianca li ha riportati in parità. McCain è però costretto a un paso doble continuo, fra l’opportunità di agganciare qualche milione di elettori moderati e la necessità di non scontentare la destra. Ha dunque avvicinato le sue vedute a quelle di Bush, che resta tuttavia il presidente più impopolare nella storia.

Deve andarci d’accordo ma cerca di evitare, come quasi tutti i candidati repubblicani di questo e degli ultimi anni, di farsi riprendere assieme a lui. Se Bush inaugurasse i lavori della Convenzione dovrebbe abbracciarlo. L’assenza gli evita questa prova.

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