L’Africa entra nel villaggio globale

L’Africa entra nel villaggio globale

Dopo la Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti decisero che occuparsi di se stessi, del proprio futuro, voleva dire occuparsi, contemporaneamente, del futuro degli altri. Per occuparsi della propria sicurezza e del proprio sviluppo economico si doveva occupare non solo di se stessi. Così nacque il piano Marshall. Così nacquero i sistemi di difesa, le regole degli scambi commerciali, l'ordine internazionale.
Due giorni fa il G8 ha preso una decisione storica: azzerare il debito di diciotto tra i Paesi più poveri del mondo, per l'equivalente di oltre 40 milioni di dollari. Presto saliranno a 55 quando altri Paesi potranno beneficiare di questa misura, essendosi, nel frattempo, conquistati i requisiti necessari in termini di democrazia e rispetto delle regole. Dopo anni di discorsi sulla fame, in sede europea, grazie all'iniziativa del premier inglese Tony Blair, ora, si fa un passo decisivo per combatterla.
Che i membri del G8 si siano decisi ad assumere quella leadership per lo sviluppo mondiale che gli Stati uniti si assunsero all'indomani del secondo conflitto mondiale? Presto per dirlo. Certamente questo passo va nella direzione giusta.
Difficile pensare allo sviluppo di questi Paesi senza che i Grandi si decidano a farsene carico. Non c'è strada alternativa: o i Paesi ricchi decidono di mettere questi Paesi nelle condizioni di partecipare attivamente allo sviluppo, o questi sono destinati al sottosviluppo e alle guerre civili che, in quelle condizioni, si sviluppano con il vento in poppa.
Nel 2000, in occasione del Millennium Round dell'Onu, il segretario generale dell'organizzazione, Kofi Annan, scrisse che «nel villaggio globale la povertà del vicino diventa ben presto uno dei tuoi problemi: la mancanza di mercati per i propri prodotti, l'immigrazione clandestina, l'inquinamento, le malattie infettive, l'insicurezza, il fanatismo, il terrorismo». Ai più ispirati questo linguaggio potrà sembrare crudo e, al fondo, solo utilitaristico. Non fa appello ai valori alti. Fa appello ad una più realistica (per alcune anime belle banale) presa di coscienza che, crescendo i problemi dei Paesi poveri, questi finiscono per mettere in gioco gli interessi più elementari del mondo ricco.
Quello che valse, come ragionamento ispiratore dell'azione di leadership mondiale degli Stati Uniti dopo il 1945, vale ancora di più oggi, nel 2005. Sessant'anni dopo è il G8 che può indicare il cammino per ricreare un ordine condiviso basato su istituzioni, impegni, consuetudini e principi. In quel Gruppo c'è la ricchezza del mondo sia in termini finanziari sia in termini di esperienza storica e di tradizione democratica. Cancellare il debito, allora, non basta. Occorre inserire questi Paesi nel circuito mondiale dell'economia e degli scambi commerciali. Altrimenti, come si legge in un documento di qualche anno fa dell'associazione umanitaria inglese Oxfam, per ogni dollaro condonato o regalato a questi Paesi poveri i Paesi ricchi ne rubano due non concedendo a quei Paesi di esportare i loro prodotti nei nostri.
Occorre che quei Paesi siano messi in grado di essere artefici del loro futuro e questo si fa con economie che abbiano la possibilità di svilupparsi ed espandersi vendendo i prodotti nel grande mercato mondiale.
Il G8 non potrebbe nulla, però, senza l'adesione piena degli Stati Uniti. La spinta è, come abbiamo detto, venuta dall'impegno di Tony Blair e del suo ministro delle Finanze Gordon Brown. Non è venuta da altri Paesi europei come Francia e Germania, che parlano di europeismo e non sono capaci di perseguire una visione dell'Europa in senso globale, capace di giocare un ruolo attivo sullo scacchiere mondiale. Ruolo possibile. Ruolo auspicabile.

Gli inglesi ce lo stanno insegnando ancora una volta: si è forti dentro se si è forti fuori perché, nel mondo globale, parafrasando un celebre detto, se non ti occupi dei problemi globali i problemi globali si occuperanno di te.

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