da Venezia
Ieri Venezia rendeva bene lidea di una città sovraccarica deventi, non tutti connessi alla Biennale.
È vero, molti si recavano allArsenale e ai Giardini per fare un giro del mondo dellarte in 28 padiglioni (in tutta Venezia questanno sono «biennalizzati» 89 Paesi). Ma cera anche chi puntava risolutamente su Palazzo Grassi, dove a mezzogiorno si inaugurava la mostra Il mondo vi appartiene, a cura di Caroline Bourgeois per François Pinault, miliardario francese proprietario di Gucci, Yves Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga, nonché agguerrito imprenditore darte contemporanea (suo pure il polo espositivo di Punta della Dogana). Dentro Palazzo Grassi lenorme e coloratissimo blob di pezze cucite di Joana Vasconcelos (Contamination) rallegrava gli animi snodandosi da un piano allaltro, ma ad alcuni non è sfuggita, allesterno, appollaiata su una delle finestre, lopera Waiting di Sun Yuan e Peng Yu: un inquietante avvoltoio. Cè chi lha interpretata metaforicamente: Pinault che punta torvo la Biennale, per eroderne il successo. «Non è così - ci dice Martin Bethenod, amministratore delegato di Palazzo Grassi e direttore di Punta della Dogana -. Noi con la Biennale abbiamo un rapporto di amicizia e rispetto, e di ammirazione. Puoi non andare per due o tre anni a Berlino, idem a Parigi, ma se ami larte contemporanea non ti perdi neanche una Biennale di Venezia. Anche per noi crea un circuito virtuoso. Certo, va bene anche senza: lanno scorso, sui due musei, abbiamo fatto mille visitatori al giorno».
Tuttavia la Laguna comincia a diventare stretta. Laltra sera a un rinfresco per addetti ai lavori sul tetto di Ca Giustinian, sede della Biennale, alcuni guardavano con sommesso sdegno verso la Basilica di San Giorgio: Pinault aveva puntato sulla facciata del Palladio dei fari rossi, in preparazione alla sua festa di mille invitati. «Orribile, mondanità sterile», è stato il commento più diffuso. Ad ogni modo la «portaerei» della Biennale non è ancora toccata dai «piccoli incrociatori» francesi, anche in virtù di una gestione che, sotto la presidenza di Paolo Baratta, questanno è arrivata ad autofinanziare la manifestazione per l87 per cento. Sono state, persino, autorizzate «solo» 37 richieste di patrocinio di mostre collaterali su 90, con un occhio alla compatibilità degli sponsor.
Pinault, che voleva acquisire pure Palazzo Labia, sede Rai del Veneto, non è lunico imprenditore dellhaute couture che alleva un parco dartisti e relazioni darte: nel pomeriggio di ieri cè stata pure, attesissima, lapertura alla stampa di Ca Corner della Regina, restaurata da Prada mettendoci di tasca propria 15 milioni di euro, e relativa vernice della mostra curata da Germano Celant a partire dalle collezioni di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli. Nonché la presentazione alla Fondazione Querini Stampalia, da parte di Fondazione Furla, di Viaggio in Italia del giovanissimo Matteo Rubbi. Non bastasse, la griffe Hugo Boss ha sostenuto il padiglione degli Stati Uniti, Louis Vuitton (LVMH di Bernard Arnault, diretto competitore di Pinault) lesposizione Mari verticali di Fabrizio Plessi al Padiglione Venezia e il deluxe brand Golden Goose è fornitore ufficiale della Biennale. E ci sono sempre più artisti che si posizionano sotto lala protettrice di marchi e maison: forse bohèmienne di lusso? «Mah - sbotta Achille Bonito Oliva - per me i veri bohèmienne sono Gelitin o Das Institut: andate a vederli, sono completamente fuori dal sistema, puri incursori nel mondo dellarte».
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