L’«altra» inchiesta

«Adriana, non immaginavo che avessi la forza di sopportare la sofferenza che mi è stata inflitta: una sofferenza infinita, lancinante che mi pervade tutto l’essere. Soffro con il corpo, la mente, lo spirito. Continuo in modo assillante a ripetermi: come è possibile, perché? Non ho alcuna risposta perché mi rifiuto di accettare l’idea che l’ingiustizia possa giungere a tanto...».
Bruno Contrada, il più famoso poliziotto di Palermo, la memoria storica della mafia, fu arrestato mentre era in servizio la vigilia di Natale del 1992. Il giorno dopo, rinchiuso nel carcere militare di Forte Boccea, riaperto solo per lui, scrisse questa lettera alla moglie, insegnante di lettere e di latino in pensione: «Cercherò di fare appello a tutte le mie residue forze, a non perdere la lucidità mentale, a non farmi sopraffare dalla prostrazione fisica e morale, e lo farò per te, per Guido così sensibile, per Antonio così fragile, ambedue così buoni ed affettuosi. Nessuno più di te conosce come io abbia vissuto, cosa abbia fatto per lo Stato, i sacrifici, le rinunce, le preoccupazioni, i pericoli corsi, la dedizione totale alle Istituzioni, la fedeltà ai miei ideali di Patria sin da quando a vent’anni indossavo la divisa di Ufficiale dei Bersaglieri, e ne ero così felice ed orgoglioso. Ora sono accusato di colpe infami, disonorevoli, le più gravi che possono essere addebitate ad un uomo, ad un servitore dello Stato: colpe che se avessi veramente commesso, non chiederei per me la perdita della libertà in questo carcere ma la pena di morte! Ma io non ho fatto nulla di male, non ho mai trasgredito i miei doveri professionali: io sono innocente...».
Bruno Contrada è rimasto chiuso a Forte Boccea, unico recluso, per più di due anni e mezzo. Processato e condannato in primo grado, assolto in appello, l’assoluzione è stata cancellata dalla Cassazione, ricondannato in appello, di nuovo in Cassazione, sono passati quindici anni, ieri la Cassazione ha riconfermato la condanna. Ora Contrada sarà trasportato nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, l’unico istituto di pena per militari rimasto aperto in Italia. Vi sarà rinchiuso, a 76 anni, per morirvi.
Contrada è stato accusato da 16 «pentiti», molti dei quali già bollati come «inattendibili» in più di una sentenza. È stato difeso dinanzi ai giudici da 5 capi della polizia, da 2 direttori del Sisde, il servizio segreto civile, da 3 alti commissari per la lotta contro la mafia, da 15 prefetti, da 11 questori, da 11 alti ufficiali, generali e colonnelli, dei carabinieri, da 2 generali di divisione della Guardia di Finanza, da più di 50 funzionari di Pubblica Sicurezza e della Squadra Mobile, da più di 20 funzionari di altre istituzioni: «Giuriamo sulla assoluta fedeltà di Contrada allo Stato», «Contrada è stato un funzionario di estrema correttezza», «Contrada è stato l’uomo di punta della lotta alla mafia», «Noi per 35 anni siamo stati con Contrada sotto il tiro dei proiettili dei mafiosi; già, proprio quelli che ora lo accusano di collusione con loro stessi», «Per averlo visto, per avere operato con lui, noi neghiamo anche il semplice sospetto di collusione con ambienti malavitosi», «Contrada è un investigatore straordinario, e per questo ha avuto 33 volte elogi dal Governo e dalla Giustizia», «Contrada ha una conoscenza straordinariamente approfondita della mafia di cui ha una memoria storica eccezionale. I “pentiti” parlano solo ora? Bisogna far luce su eventuali interessi ed eventuali “corvi” che hanno ispirato ai “pentiti” le dichiarazioni contro Contrada».
Perché i giudici di primo grado e i giudici del secondo appello e per ben due volte la Cassazione hanno creduto ai criminali e agli assassini e non hanno creduto a decine e decine di servitori dello Stato? E chi sono e per quali interessi quelli che hanno arruolato e hanno imbeccato i «pentiti» per infamarlo? Chi sono i «corvi» di cui ha parlato dinanzi ai giudici il capo della polizia Vincenzo Parisi? Chi è il «Caino», accusato dalla moglie di Contrada? Così urlò la moglie Adriana nei corridoi dell’ospedale, dove avevano portato il marito, svenuto in aula e che tentò di ammazzarsi con la pistola del carabiniere della scorta e con la siringa dell’infermiere: «Caino, sia maledetto Caino, il collega di mio marito, è lui l’autore della congiura, è lui che ha arruolato e imbeccato i “pentiti” che l’accusano, è lui che vuole eliminarlo per prendere il suo posto e per usare la lotta alla mafia per fare carriera...».
C’è un’altra inchiesta da fare, oltre questa su Contrada che è durata quindici anni e si è conclusa con la condanna definitiva di un servitore dello Stato. E ci sarà un’altra sentenza da emettere contro i corvi e il Caino che hanno organizzato questa infamia. E lo si dovrà fare comunque anche se la condanna di Contrada è stata confermata. Si può cominciare subito.


E una cosa è questa: Contrada, chiamato alla vice direzione del Sisde, aveva preparato un progetto per trasformare il servizio segreto civile in servizio antimafia, ma c’era chi invece era interessato a creare per combattere la mafia, ma più che la mafia i politici falsamente accusati di connivenza con la mafia, un servizio del tutto nuovo, la Dia, che lo stesso Cossiga definirà «il servizio segreto di polizia politica». Fu proprio allora che, la notte di Natale, Contrada fu arrestato e rinchiuso a Forte Boccea. Fu soltanto una coincidenza?
Lino Jannuzzi

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