L’arte di sopravvivere

Romano Prodi finora è stato il più coerente con la consegna del (parziale) silenzio imposta ai ministri. Anche quando parla, sta zitto. Si limita a intervenire di tanto in tanto, una o due volte alla settimana. Mai sui dossier spinosi. E cerca di ritagliarsi un posticino nelle notizie buone (per lui): le elezioni amministrative, il no alla riforma costituzionale, il plauso alle finte liberalizzazioni, l’abbraccio con Angela Merkel nel giorno di remake del mito Italia-Germania, l’affaccio dalle finestre di Palazzo Chigi col Pupone e la Melandri vestita come le bambole Lipstick. Sin da quando in aprile rifiutò di presenziare a una puntata di Porta a porta, Prodi è sempre stato consapevole di un dato: meno appare, meglio è. Sia per lui, i cui indici di popolarità non schiodano da cifre poco confortanti, sia per la sua coalizione. Meglio ancora se neppure parla e si tiene alla larga dal principale strumento della democrazia contemporanea di massa, la televisione. Così, a cento giorni e poco più dalle elezioni di aprile continua a funzionare l’«agenda Sircana», dettata dal comunicatore principe prodiano agli uffici stampa del governo nell’incontro a porte semichiuse di San Martino in Campo. Per chi non la ricorda: divieto a tutti i componenti dell’esecutivo di esternazioni non concordate con Palazzo Chigi, e conseguente trasformazione dei portavoce governativi in una strana razza di portasilenzio. A parte qualche sbavatura, il diktat è ancora in vigore, aiutato dallo stop estivo a gran parte dei programmi radiotelevisivi di approfondimento politico, come stratagemma per mascherare l’estrema frammentazione della coalizione di centrosinistra con una patina artificiale di unitarietà nella comunicazione. Tutte le bugie, però, hanno le gambe corte, anche quelle confezionate dagli spin doctor, e il gracile equilibrio di immagine unitaria del governo vacilla vistosamente ogni volta che viene messo alla prova. Così, all’espediente della manipolazione comunicativa se n’è aggiunto un altro, di impostazione diametralmente opposta. Semplificando: visto che è impossibile garantire il consenso alla linea politica complessiva del governo, proviamo con la tattica del giorno per giorno. I politologi definiscono «incrementalismo» questo approccio: puntiamo a sopravvivere, domani si vedrà. E per sopravvivere Romano Prodi ha ulteriormente occultato la sua presenza nelle questioni più delicate, accentuando la sua posizione di primo ministro ombra, di essere fantasmatico che esce di rado anche fisicamente dal recinto protettivo delle «sedi istituzionali», e inviando a sbrigarsela in solitudine sul fronte mediatico i singoli ministri: Bersani sulle liberalizzazioni, Parisi e D’Alema sulla missione militare in Afghanistan, Padoa-Schioppa sul Dpef, Amato sui servizi segreti. Fuori dal governo, Fassino sulle riforme istituzionali. L’obiettivo è quello di disarticolare le politiche dell’esecutivo, quasi nascondendo che non si tratta di singoli provvedimenti ma di tasselli di un’unica strategia del governo dell’Unione. Giocare al ruolo dei pontieri e chiedere il sostegno o l’approvazione di media e parti sociali su un singolo provvedimento è più semplice: una volta ci si appella al senso di responsabilità dell’opposizione, un’altra volta si innalza la bandiera della tutela dei consumatori, un’altra volta ancora ci si rifugia sotto l’ala protettiva dell’Unione Europea. E in caso di esito negativo sulla graticola ci va a finire un solo ministro, senza che l’immagine della coalizione o la tenuta del premier vengano scalfite più di tanto. Una strategia di questo tipo, appesa alla mera forza di disperazione, potrebbe venire smascherata in tempi rapidissimi da un’opposizione compatta, e consapevole che il punto primo dell’interesse nazionale e del senso di responsabilità istituzionale, oggi, è fare in modo che il governo di centrosinistra faccia le valigie il prima possibile. Con un’accorta strategia di comunicazione, gli italiani capirebbero subito. Data la situazione di sostanziale parità che regola i rapporti di forza tra Unione e Casa delle libertà al Senato, l’autunno e la presentazione della finanziaria rappresentano già da ora l’occasione per mandare all’aria il punto primo e il punto secondo dell’«agenda Sircana». Invece, vicende come quella del voto sulla missione in Afghanistan o del decreto Bersani stanno dimostrando che forare la corazza del centrodestra si sta rivelando un’operazione più semplice del previsto, costruendo ipotesi di maggioranze variabili su provvedimenti che stanno per atterrare, dalle riunioni di Palazzo Chigi e dai giri informali di consultazione, nell’arena parlamentare.

Nella precedente legislatura, quando i ruoli di governo e minoranza erano invertiti, questo non è mai accaduto. È bene che lo rammenti con una certa urgenza chi oggi, al centro ma non solo, fa sfoggio di aplomb istituzionale o di trasversalismo politico. Nel momento meno opportuno.

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