L’artista degli ottomila scala l’ultima vetta Ora tocca ai suoi eredi

Riccardo «cuor di leone» non c’è più. Sembrava immortale con quei suoi cent’anni compiuti quest’anno il 2 di gennaio. È come se il suo cuore, che ha smesso di battere ieri nella casa del Pian dei Resinelli sopra a Lecco, avesse tenuto duro fino alla boa del secolo, prima di fermarsi per sempre. Aveva attraversato praticamente tutto il Novecento, sopravvivendo non solo alle grandi guerre e all’indigenza della giovinezza, ma soprattutto a scalate da brivido, dalle sue Grigne fino all’Alaska e poi ancora più lontano e più in alto. Le linee che seppe disegnare sulle montagne, a buon diritto, si sposano con un solo termine: sublime. Per dire, insieme, lo smisurato, lo spaventoso, l’eroico.
Originario di San Vito al Tagliamento, in Friuli, nel 1937 aprì una via straordinaria sulla parete Sud-Est del Pizzo Badile, la «Cassin» appunto. Nel 1938 fu ancora il sublime: lo Sperone Walker, sulla Nord delle Grandes Jorasses. A partire dagli anni ’50 Cassin non si limita a scalare ma diviene lui stesso organizzatore, spesso capo spedizione. A quel punto è ormai un riferimento nel mondo verticale, dotato non solo di talento, ma anche di una personalità carismatica che, nel 1954, gli costa l’esclusione dalla spedizione nazionale al K2. Ardito Desio non l’avrebbe mai accettato in un progetto che doveva essere collettivo. Nel 1958 guida la spedizione che porta sulla vetta del Gasherbrum IV Walter Bonatti e Carlo Mauri. Nel 1961, in Alaska, conquista la montagna più alta del Nord America: il Denali-Mckinley (6194 m). Nel 1975 è con Reinhold Messner al Lhotse.
Ma sono solo alcune delle sue imprese, fra centinaia. Aveva scalato migliaia di cime, contribuendo a imprimere un’accelerazione senza uguali alla storia dell’alpinismo. Una storia di stile, non solo di quantità, di fronte alla quale gli alpinisti di oggi impallidiscono. Certo, Cassin non poté partecipare a quell’impennata di orgoglio nazionale post-bellico che fu la conquista del K2, ma lui è stato capace di calamitare su di sé il consenso di un eroe di origini umili: «Riccardo Cassin è stato l’equivalente alpinistico di Giulio Cesare: “Veni, vidi, vici”» scrive Alberto Paleari sulla monografia di Alp a lui dedicata. Ma è Fausto De Stefani, un grande ottomilista, a regalarci le parole più belle per Riccardo: «Un artista che ha scelto di emozionarci con l’alpinismo». Che dire poi del suo fiuto imprenditoriale grazie al quale nacque una delle aziende produttrici di materiali tecnici più note nel settore? Cassin era sempre un passo avanti, anzi, sopra.
E oggi? Che ne è di quell’alpinismo di ricerca e invenzione, come fu quello di Bonatti, capace di inventarsi una solitaria ai Dru, sul Bianco, che divenne leggenda, o come quello di Messner che inventò la collezione dei 14 ottomila, tagliando per primo il traguardo nel 1986, poco prima del polacco Jerzy Kukuzka? Vero è che il mondo è stato esplorato fin nelle sue pieghe più nascoste, il che non basta però a spiegare un innegabile deficit di creatività delle nuove generazioni. L’alpinismo italiano resta pur sempre un alpinismo di vertice, ma chi sa competere coi polacchi nelle invernali? E chi sa partire, esplorare, salire vette inviolate per vie nuove, tecnicamente più difficili ma meno «remunerative» di un Everest come sanno fare, per esempio, l’americano Steve House o il giovanissimo svizzero Simon Anthamatten? Oltre ai collezionisti di ottomila come Silvio «Gnaro» Mondinelli o come la bravissima Nives Meroi ci sono Simone Moro e Hervé Barmasse.

Conosciuti nel mondo alpinistico, meno al di fuori. Ma ci sarà un motivo se molti - come Don Abbondio - di fronte agli astri nascenti dell’alpinismo (se non già fissi allo zenith) si chiedono: «Carneade, chi era costui?».

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