L’Atlantico è troppo largo

Quante definizioni, per il rapporto tra Europa e America. La più diffusa, e adoperata a suo tempo nei due sensi, era «un Atlantico più largo». La più maliziosa è «il malinteso euroamericano». La più rigorosa è quella che ci propone oggi Paolo Janni nel suo L’Occidente Plurale. Gli Stati Uniti e l’Europa nel XXI secolo (Rubbettino, pagg. 162, euro 12). Rigorosa perché prudente e prudente proprio perché l’autore sa molto e dunque rifugge dalle approssimazioni. Paolo Janni è un diplomatico, docente, saggista specializzato proprio in questi due così importanti settori del globo. Europeista convinto e appassionato - anche se ultimamente un po’ smagato -, ha rappresentato l’Italia alle Nazioni Unite, alla Ue di Bruxelles e a Washington come ministro e ambasciatore. Insegna ora «Integrazione europea» alla Catholic University of America. È abituato a spiegare l’Europa agli americani e gliene rimane nello stile una chiarezza tutta anglosassone anche quando spiega l’America agli europei. Cominciando dalle radici del Sogno Americano e finendo all’antica e complessa realtà dell’Europa, che ha troppa storia per poter essere un sogno.
Pensoso, si sforza di non essere pessimista. Riconosce che è in corso una deriva fra le due sponde dell’Atlantico, piuttosto recente, di dimensioni imponenti e sul momento non risolvibile. Ma è anche vero che un po’ è sempre stato così. «La vecchia definizione dell’America come figlia dell’Europa - scrive Janni - non è mai stata del tutto esatta. L’America nacque in contrapposizione all’Europa \. Non è il Paese più ricco, tecnologicamente più sviluppato e militarmente forte del Vecchio Continente. Non è “più avanti” dell’Europa, ma è “altrove”».
È stata un’eccezione, semmai, la stretta convergenza della seconda metà del Ventesimo secolo, quando l’America «diventò una potenza anche europea, con un vitale interesse nel promuovere la stabilità, la pace e la prosperità del Vecchio Continente». Un compito che assolse con generosità e intelligenza, capace di mettere sotto l’«ombrello nucleare» che ci garantiva dall’Urss il Piano Marshall che ci consentì una ripresa economica così rapida e insieme così durevole dall’«anno zero» del 1945. Di rado nella storia, forse mai, un vincitore fu altrettanto lungimirante. Con la fine della minaccia sovietica molto è cambiato nel mondo. Certamente, forse irreversibilmente, è cambiata la partnership atlantica. L’Atlantico è diventato più largo... È cambiata l’America, non noi, e questa è una delle radici della nostra debolezza. È cambiata in un modo che non ci piace, ma non possiamo convincerla a ritornare amabile come era. Il cemento che ci univa si chiamava Nato, e la Nato come l’abbiamo conosciuta non c’è più. Gli americani ne stanno facendo qualcosa di diverso, una «cinghia di trasmissione» del loro potere mondiale. Gli europei nicchiano, fra l’altro perché il Grande Gioco si sposta nel Medio Oriente e noi non abbiamo le chips per giocare e neppure siamo d’accordo sulla necessità di farlo.
L’Alleanza atlantica non è mai stata fra eguali sul piano militare ma lo era su quello formale, politico. Della dignità. La sua chiave era la deterrenza e l’America di Bush l’ha sostituita con la «guerra preventiva». Ha proclamato che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato nessuna coalizione di potenze straniere capace di sfidare la supremazia americana. Se questo dovesse far dire al resto del mondo che gli Stati Uniti sono imperiali, osserva William Kristol, «ebbene, siamo un Paese imperiale». L’Europa è, di conseguenza, meno ascoltata. Non ha giovato lo scontro sull’Irak.

Soprattutto non giova, ed è un argomento che Janni approfondisce particolarmente anche perché gli è caro, il sempre più acuto divario culturale fra le due sponde dell’Atlantico, fra un Paese pio e marziale e un continente che non è più marziale, è sempre più laico, non è abbastanza vasto per essere un continente e ancora non sa, o non vuole, diventare una nazione.

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