«L’attentatore di Nassirya? Che sia impiccato in Irak»

Dal Tribunale di Roma un passo per ottenere l’estradizione del terrorista Omar al Kurdi

«L’attentatore di Nassirya? Che sia impiccato in Irak»

I militari sopravissuti, che portano ancora nelle carni i segni della strage di Nassirya vorrebbero vedere l’organizzatore reo confesso dell’attentato penzolare da una forca, come ha sentenziato la giustizia irachena. Altri sono contrari alla pena di morte ed alcuni familiari delle vittime sperano che il terrorista venga processato in Italia rischiando al massimo l’ergastolo. Ieri il gip del tribunale di Roma, Sante Spinaci, ha firmato il mandato d’arresto per Omar al Kurdi, uno dei luogotenenti di Al Qaida in Irak che ha confessato di aver organizzato l’attentato kamikaze alla base italiana del 12 novembre 2003. L’attacco terroristico spazzò via un palazzina occupata dai carabinieri e causò 19 morti fra gli italiani, in gran parte militari ed una decina di vittime fra gli iracheni.
Al Kurdi, il cui vero nome è Said Haraz Abdelaziz Mahmoud, era stato catturato dagli americani e condannato a morte dalla giustizia irachena con sentenza definitiva il 30 agosto scorso. La forca lo attende non solo per l’attacco contro gli italiani, ma per una trentina di efferati attentati, come l’attacco che ha distrutto la sede dell’Onu a Bagdad uccidendo Sergio Vieira de Mello, il rappresentante del palazzo di Vetro in Irak.
Il pm Franco Ionta, che da tempo aveva chiesto al gip la misura cautelare, ha detto a Il Giornale che «fino a poco prima di Natale la condanna a morte non era stata eseguita». La magistratura, attraverso i canali diplomatici e ministeriali, cerca da mesi di evitare l’impiccagione di Al Kurdi per poterlo estradare e processarlo in Italia. Un’impresa quasi impossibile perché non esiste al momento alcun accordo fra il nostro Paese e l’Irak sull’estradizione.
La notizia dell’ordinanza di custodia cautelare e della sentenza di morte nei confronti del terrorista che preparò i kamikaze e l’autocisterna di Nassirya, riempiendola con l’esplosivo, suscita reazioni diverse fra chi ha perso i propri cari o pagato sulla sua pelle. «La magistratura italiana sta facendo il suo lavoro, ma se gli iracheni lo hanno condannato a morte è giusto così» spiega a Il Giornale Cosimo Visconti, carabiniere in congedo ferito gravemente a Nassirya. Su quel giorno maledetto ha scritto un libro, «12 novembre cronaca di un attentato» e pur dichiarandosi contrario in linea di principio alla pena capitale alla fine sostiene: «Chi di spada ferisce di spada perisce, è giusto che sia così. Per l’impiccagione di Saddam, a cominciare da Pannella, tutti si sono mobilitati, ma che certi politici pensino di più ai reduci di Nassirya».
Il caporal maggiore Alessandro Mereu, della gloriosa brigata Sassari, ci vede da un occhio e sente poco, ma è tornato in servizio. Il giorno della strage era addetto ad una scorta e sul terrorista reo confesso non ha dubbi: «Secondo me deve morire, quindi lasciamolo alla giustizia irachena. Cosa bisogna fare? Salvarlo, processarlo in Italia, mandarlo in carcere per una quindicina d’anni e magari dopo me lo vedo uscire per buona condotta? Che venga impiccato. A Nassirya c’è chi ha lasciato genitori, figli piccoli o è rimasto disabile per sempre».
Alessandra Merlino, vedova di un mitico sottufficiale dei carabinieri vittima della strage, ha appena saputo della notizia del mandato d’arresto per Al Kurdi. «Che paghi, che sconti la pena massima, ma la pena di morte no. Non posso approvare che gli venga tolta la vita, anche se lui l’ha tolta a tante persone compreso mio marito ­ spiega la signora Merlino ­. Piuttosto che sia processato in Italia e chiarisca tutti gli aspetti della strage». Le fa eco l’avvocato Francesca Conte, che rappresenta una decina di famiglie delle vittime di Nassirya: «L’Italia ha dato il sangue dei propri figli per l’Irak. Ora è giusto che gli iracheni prendano atto della nostra richiesta di giustizia. Il Paese ha bisogno di tutelare la memoria dei suoi caduti con un giusto processo». Contrario alla pena di morte anche Aureliano Amadei, il civile sopravissuto alla strage, mentre il regista con cui lavorava, Stefano Rolla, è rimasto ucciso. «Vorrei l’estradizione anche se è un’utopia. Il mio piede è rimasto spappolato, non il cervello e non nutro volontà di vendetta» spiega Amadei, che sta preparando un film sulla strage prendendo spunto dal suo libro «Venti sigarette a Nassirya».


Il generale Alberto Ficuciello, consigliere militare a Palazzo Chigi, che ha perso il figlio Massimo nell’attentato, spiega che «nulla potrebbe barattare il dolore che sento, tantomeno la pena di morte. Sul piano personale non provo odio. Non potrò riavere mio figlio, ma sono convinto che il tragico evento di Nassirya sia servito al risveglio della coscienza nazionale».

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