L’AUDIENCE DÀ RAGIONE AI REALITY

La prossima stagione chi vorrà criticare i reality, a cominciare dall’Isola dei Famosi appena terminata, forse farà meglio a prendersela con chi li guarda anziché con chi li fa. Suonerà come una provocazione, come un ulteriore esempio di snobismo e di «lesa maestà» nei confronti di un genere televisivo seguito da milioni di persone, ma fa niente. Del resto ognuno è snob nei confronti di qualcos’altro, nella vita, che se ne accorga o meno. E per il resto non si capisce perché ci si debba assoggettare ogni volta alla dittatura dell’audience come se la forza dei numeri dovesse intimidire anche il poco senso critico rimasto in circolo nel sistema mediatico. Perché la prossima stagione ce la prenderemo, eventualmente, con chi guarda i reality anziché con chi li fa? Semplice: perché chi li fa ci guadagna, li confeziona con una indubbia abilità, li costruisce con scaltrezza, appronta una «macchina commerciale» che sa raggiungere l’effetto desiderato ben sapendo che in ogni spettatore si annida una quota di voyeurismo, la voglia di guardare dal buco della serratura, un veloce adattamento a televisioni sempre più povere di contenuti, dove per contenuto non si intende ovviamente l’accostamento a programmi barbosi o pretenziosamente «impegnati», ma a forme di intrattenimento che nutrano e divertano con intelligenza anziché portare a un progressivo imbarbarimento del gusto, favorito dal forte potere ipnotico del mezzo televisivo. Chi produce i reality ci guadagna, chi li confeziona idem, stessa cosa per chi li conduce, commenta, rielabora invasivamente nei giorni successivi occupando altre fasce di palinsesto e persino gli spazi dei tg, a scapito del «tanto altro» di cui non rimane il tempo di occuparsi. Ma cosa ci guadagna, invece, chi li guarda? Se lo spettatore avesse lo stesso cinico pragmatismo di chi fa televisione comincerebbe a soppesare la bilancia del costo-ricavo delle ore spese dietro ai troppi programmi «ladri di tempo», tra i quali i reality hanno un posto di rilievo. Bisognerebbe chiederlo alle cinquemila famiglie del campione Auditel, che valore danno al loro tempo speso davanti ai reality. A quelle quindicimila persone che determinano, con le loro scelte, non solo il destino di questo o quel programma ma l’indirizzo stesso dei criteri di programmazione generale, e quindi in ultima analisi del destino culturale di un Paese.

È sperabile che un giorno di un prossimo futuro qualcuno non ci venga a dire che avevamo tutti sbagliato a prendere alla lettera i dati Auditel anziché considerarli come una indicazione convenzionale, una sorta di proiezione alla stregua dei sondaggi che si fanno prima delle elezioni, quando il campione interpellato dice una cosa, ma poi i risultati reali sono spesso ben altri.

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