Morto da martire, rinato da infame. Le due vite del 22enne piastrellista palestinese Bani Oadah oscillano tra questi estremi. La sua prima vita, quella da intrepido militante di Hamas, si esaurisce venerdì scorso quando le autorità carcerarie del governo di Salam Fayyad ne annunciano la morte in una cella del carcere di Nablus, quando i capi di Hamas lo proclamano martire della persecuzione. La seconda comincia sabato, quando il risorto Oadah denuncia, davanti alle telecamere, la sua carriera da Giuda al soldo del nemico israeliano. Una carriera, racconta il giovane, costata tanto sangue e tanta galera ai suoi commilitoni.
Ma quella vita tra due estremi, la scelta del tradimento impostagli fotografandolo mentre cedeva alle lusinghe sessuali di unarrapante soldatessa israeliana, la decisione di Fatah di farlo morire e rinascere per incrinare limmagine dintegrità del movimento islamico, fanno discutere. E lopinione pubblica palestinese si divide e si smarrisce alla ricerca dellesile verità celata nellimpenetrabile trama di sesso, tradimenti e spionaggio. Dove finisce lautentica vita del piastrellista? Dove inizia quella forgiata dal nemico? Quali parti rientrano nella commedia messagli in bocca dai servizi segreti di Fatah e dal loro ambiguo capo Tawfik Tirawi? Nessuno lo saprà mai.
E Bani Oadah, smarrito per sempre nel labirinto delle sue identità, non potrà di certo né riscostruirlo, né pretendere di venir creduto. La sua storia è però il simbolo del lacerante scontro tra fazioni palestinesi ormai pronte a rimandare la lotta allinvasore per regolare i conti interni. Lo testimonia, a Gaza, la retata di decine di militanti di Fatah messa a segno da Hamas durante un matrimonio. Lo confermano le accuse di collaborazionismo rivolte al presidente palestinese Mahmoud Abbas accusato di complicità con Israele nella persecuzione dei militanti islamici.
La storia di Bani Oadah diventa così il diamante nero di una lotta in famiglia. La sua vita da Giuda, a dar retta alle sue parole, «inizia quattro anni fa a Gerico, quando una pattuglia israeliana mi ferma alluscita del cantiere in cui lavoro». Oadah non spiega se sia già un attivista, non chiarisce i motivi dellarresto. Il suo racconto è tutto concentrato sullintrigo. «Mi portano alla base di Huwwara, mi lasciano per quattro giorni solo in una cella, poi arriva lei, Raviv, un ufficiale dei servizi segreti, e mi chiede se sono pronto a collaborare». Oadah è ancora padrone di sé, ancora in grado di rifiutare. Dura poco. La donna pronta a cambiare la vita del giovane entra in scena poche ore dopo. È in uniforme, si affaccia alla cella, vuole entrare, conoscere la sua storia. Da lì a chiudergli la bocca con sussurri e baci, a scostare i suoi «no» e ad avvicinare le sue mani ci passa poco.
Quando Raviv torna, ha in mano un mazzo di foto. Linenarrabile tentazione del palestinese scorre, immagine dopo immagine, tra le mani dellufficiale. Basterà farla arrivare al villaggio e la vita di Oadah sarà finita. Per evitarlo, spiega Raviv, meglio iniziarne unaltra.
Quattordici giorni dopo Oadah indossa ununiforme israeliana, stringe in pugno una torcia al laser. Dietro avanzano i soldati veri. Li guida tra le colline di Nablus fino al villaggio di Tammun. Oadah riconosce quel luogo anche al buio, alza la torcia e per tre volte proietta un puntino rosso sullentrata della casa. Un attimo dopo i soldati sono già dentro. Pochi colpi, una decina in tutto, poi il silenzio e cinque cadaveri allineati nella strada. Erano commilitoni in fuga, commilitoni nascosti. Oadah si mette in tasca 2000 shekel, poco più di 450 euro. Da quel momento non si ferma più. Hamas gli chiede di proteggere lufficio del suo villaggio e lui intanto si vende amici e fede.
Ora la confessione lo rimette in gioco.
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