L’intervento Dopo l’articolo di Marcello Veneziani

Da anni la crisi rende evidente l’incapacità predittiva della teoria economica. Eppure la politica è sempre più dominata dalla tecnocrazia, che si tratti di agenzie di rating o di «esperti» che, pur incapaci di previsione, dispensano ricette per il futuro. Non occorre essere marxista o keynesiano per ammettere che i due capisaldi teorici della teoria economica del mainstream sono alla deriva. Il primo è l’asserto secondo cui se il mercato viene lasciato a sé stesso esso va in equilibrio e tutto va a posto. Peccato che nessun risultato teorico lo convalidi.
Quanto alle pratiche concrete, si pensi al fallimento dei modelli matematici che da un trentennio si basano sull’idea che i mercati finanziari siano controllabili e sul secondo capisaldo del mainstream: è «razionale» il soggetto economico che conosce perfettamente il funzionamento del sistema e agisce in modo assolutamente egoista, massimizzando il profitto. La versione moderna di questa concezione è la teoria delle «aspettative razionali» che ricava da un’idea discutibilissima di razionalità il precetto che farebbe evolvere l’economia in modo determinato. Se i soggetti si comportano «razionalmente» si verificheranno gli eventi economici che essi si aspettano: comportatevi «razionalmente» e la realtà sarà «razionale». Negli anni settanta il celebre modello matematico di Black, Merton e Scholes tradusse tale visione mediante analogie con la meccanica statistica, per descrivere l’andamento nel tempo di prodotti finanziari. Le ipotesi irrealistiche del modello - per esempio, che le attività finanziarie si spalmano nel tempo per frazioni arbitrariamente piccole di prodotti finanziari - sono state accettate come prescrizioni capaci di controllare il mercato finanziario. Si è fatto credere che bastasse implementare nei computer il modello di Black-Merton-Scholes per realizzare il sogno di un’economia «razionale». Mezzo mondo finanziario ha operato in tal modo.
Nel 1998, il crack della finanziaria Long Term Capital Management era l’occasione per convincersi che il mondo è fatto da uomini che non sono robot, che non esiste una legge meccanica che porta all’equilibrio del mercato, che il primato nel governo della società e dell’economia è della politica e non della tecnocrazia e della sua pseudoscienza. Nessuno se n’è dato per inteso.
Eppure, proprio nel 1998, un protagonista di oggi, che pare si sia arricchito sul declassamento dell’economia statunitense da parte di Standard & Poors, George Soros, di fronte al Congresso USA, invitò a «riconoscere che i mercati finanziari sono intrinsecamente instabili» e che «la convinzione che i mercati finanziari lasciati a sé stessi, con i loro strumenti, tendono verso l’equilibrio è falsa». «I mercati finanziari - aggiungeva - sono portati verso gli eccessi e se una successione di rialzi e di ribassi si verifica al di là di un certo limite, non si tornerà mai al punto di partenza. Invece di agire come un pendolo, i mercati finanziari hanno agito come una palla di demolizione, colpendo un’economia dopo l’altra». E ancora: «imporre la disciplina del mercato significa imporre l’instabilità e quanta instabilità può essere tollerata dalla società? La disciplina del mercato deve essere integrata con un’altra disciplina: mantenere la stabilità dei mercati deve essere il fine delle politiche pubbliche».
In molti prevale il timore che si torni a ricette socialiste o keynesiane. Si ingannano perché essere liberali non significa - al contrario! - cancellare il ruolo della soggettività o ridurla alla parodia della razionalità come infinita preveggenza e illimitato egoismo. Né è intrinseco al liberalismo concepire l’economia come un sistema fisico governato da leggi cieche che garantirebbero l’equilibrio. Questo gretto scientismo, che consegna la politica alla tecnocrazia, è invece consono a visioni totalitarie.
Altri temono (giustamente) che l’economia reale sia schiacciata da un’economia finanziaria che vale (virtualmente) molto di più e detta legge alla politica economica pretendendo di rappresentare il giudizio «oggettivo» del mercato e che ciò conduca a una crisi della democrazia. La via d’uscita è, in effetti, la fine del primato delle ideologie tecnocratiche, a ogni livello, soprattutto culturale. La politica deve avvalersi delle autentiche competenze, non subordinarsi ad esse. Altrimenti, la palla di demolizione continuerà nella sua opera implacabile, tra le prediche degli “esperti”.

Una politica di alto profilo deve difendere a tutti i costi l’economia reale puntando sulle forze produttive, perché una società che avvilisce i soggetti produttivi e li abbandona a processi “spontanei” (che peraltro non lo sono) non suscita le forze morali e la spinta etica che sole possono rivitalizzare la società e garantirle un futuro.

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