L’INTERVISTA 4 ALEKSANDAR HEMON

In bermuda color basilico e camicia di lino verde menta, e All Star ai piedi, Aleksandar Hemon accoglieva ieri mattina a Firenze giornalisti e fan senza tradire nessuna emozione per la sua corsa in finale al «Gregor von Rezzori». Premio vinto da lì a poche ore, per il romanzo Il progetto Lazarus, buon successo Einaudi dell’ultimo anno sia in libreria sia presso i critici. Hemon - nato a Sarajevo, Bosnia, nel 1964 - dal 1992 vive a Chicago e dal 2000 è cittadino statunitense.
Più americano o più bosniaco?
«Tutte e due simultaneamente. Meglio così: posso permettermi di non accettare a priori certe posizioni che gli americani accolgono supinamente dal loro governo o dalla loro cultura. Posso dire la verità».
Diciamola.
«Anche se non ho fatto in tempo a non votarlo - dovevo ancora prendere la cittadinanza - mi stupisce tutto ciò che ha combinato George W. Bush. Dell’America, poi, respingo anche certa musica folk a favore del rock. Non è così scontato che gli americani riescano a fare lo stesso. Lo sradicamento ti permette di rompere quella specie di delirio psicanalitico che è la continuità dell’Io e, a un secondo livello, della Patria».
E la nostalgia, quella per esempio di Vladimir Nabokov, altro scrittore slavo-yankee cui lei è stato sovente paragonato, non ha un suo peso?
«La nostalgia è un’utopia refrattiva, per la persona, e una grande risorsa per lo scrittore, o come lo chiamo io per l’operatore di narrativa: egli, attraverso memoria e immaginazione, salva e promuove se stesso, il proprio passato, il proprio racconto. E la propria identità».
A quest’ultima parola Nabokov avrebbe arricciato il naso. La riteneva un tema noioso.
«Per me, invece, è importante, e qui ridivento bosniaco. In Europa le identità nazionali vengono ancora definite dal sangue, o quasi. Di sicuro fino alla Seconda guerra mondiale. Poi, a causa dell’Olocausto, non è stato più possibile continuare su tale strada e si è passati a una definizione di identità su base culturale. L’essenza italiana, l’essenza francese... Si finisce col tollerare malvolentieri le altre culture. Ma la diversità culturale è come la diversità razziale».
Quindi i cultural studies di molti campus sono corsi ipocriti?
«Se non altro un po’ campati per aria. In un master che frequentavo un professore cantò a lungo il musical Music Man in modo stonatissimo, e tutti lì con blocnotes e matita alzata, orgogliosi di far parte di questi “luoghi di resistenza della cultura popolare all’interno del capitalismo”, come vengono chiamati tali corsi. Ciò ha dato luogo a una gran confusione etica: pensiamo a come è stata erroneamente definita islamica, nel periodo prima dell’invasione dell’Iraq, la cultura di Saddam Hussein e Osama Bin Laden. Servirebbe a proposito un’auto-denazificazione di tutto il popolo americano».
Anche il suo protagonista Lazarus viene percepito in questo modo distorto.
«Lo dico io ma anche le carte che ho consultato per il romanzo. Lazarus, realmente esistito, viene ucciso da un poliziotto yankee che lo vede innanzitutto come possibile “ebreo” o “siciliano”, e non come persona.

Meno male che gli Usa, da sempre, riescono ad ammorbidire questa cosa: c’è una contiguità pacifica tra religioni, perché prima di tutto si è cittadini. Nella Sarajevo della mia infanzia sono cresciuto con quattro religioni intorno. Cinque, se contiamo il comunismo».

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