L’INTERVISTA 4 PASCAL SALIN

Viviamo nel capitalismo? Parrebbe di no. Almeno questa è la prima impressione nel leggere il provocatorio saggio Ritornare al capitalismo per evitare le crisi, dell’economista francese Pascal Salin, tra pochi giorni in libreria (Rubbettino, pagg. 226, euro 14, prefazione di Francesco Forte).
Pascal Salin, cosa intende con «tornare al capitalismo»? Vi eravamo immersi fino al collo e non ci ha evitato la crisi economica più grave dal 1929.
«Sono abituato ad avere parecchi nemici, il numero è in calo, ma rimane consistente. E rispondo: la crisi è stata provocata e aggravata da un interventismo statale e da una politica monetaria estremamente forte. Ci è poi stata venduta la versione che il capitalismo è instabile in sé e che la colpa della crisi è da attribuire a operatori economici privati e molto avidi».
Non è così?
«Non è così. I media francesi hanno cominciato a capirlo. Il capitalismo è un sistema che si basa sui diritti di proprietà legittima e incentiva la responsabilità di ognuno. È un sistema morale. Favorisce anche l’avidità, è vero, ma questo non è negativo nella misura in cui vengono rispettati i diritti altrui».
Torniamo - o scendiamo - alla recente catastrofe economica.
«È nata e permane nel punto esatto di congiunzione tra politica monetaria e politica fiscale. Gli attuali sistemi fiscali frenano l’accumulazione di capitale. Bisognerebbe invece detassare i risparmi e le plusvalenze. Se guadagni cento e di tasse ne paghi cinquanta, per i restanti cinquanta hai due strade: o li risparmi o li consumi. Si è fatto di tutto per indurre la gente a consumare, vale a dire a disintegrare i propri soldi. Per questo il risparmio diminuisce, specie negli Usa, dove credono di poterlo sostituire stampando moneta. Pratica immorale, perché provoca l’illusione di qualcosa che non esiste».
Potremmo chiamarla politica espansionista...
«Sì, ed è quella che vede le persone contrarre prestiti per qualunque cosa, compresi i progetti non remunerativi. È prassi capitalista, questa? E lo Stato aggrava tale situazione. Come è accaduto coi mutui subprime: il governo americano ha obbligato le banche a prestare denaro a chi non poteva restituirlo e a tassi irrisori che poi si sono alzati. L’ha fatto per pura demagogia. Traduco: il vero capitalismo è stato rimpiazzato da interventi statali di carattere monetario che non hanno favorito la formazione di capitale».
Come invece ai tempi di Balzac.
«Appunto. Nel XVIII e XIX secolo le banche erano piccole e tutte possedute da veri capitalisti che non avevano proprio voglia di fallire e mantenevano perciò elevati i tassi di interesse. Oggi le banche cercano di fondersi e concentrarsi sempre di più, secondo il principio too big to fail, troppo grande per fallire. In una banca di queste dimensioni non decide nessuno, se non i manager, che non hanno a cuore né la banca né il capitale, ma il loro stipendio».
Lo stile bancario da lei preferito cambiò all’inizio del Novecento, in coincidenza con l’ascesa delle democrazie. La democrazia è nemica del capitalismo?
«Non sono contro la democrazia, ma vorrei vederne limitata la capacità di intervenire sull’accumulazione del capitale. E non credo l’alternativa sia il capitalismo alla cinese, dove c’è troppa collaborazione tra la nomenclatura politica e quella economica. La corruzione infatti è alle stelle. Nel lungo periodo il capitalismo cinese non reggerà».
E quello europeo?
«Quando nel mio libro parlo di “eurosclerosi” mi riferisco ai Paesi ex comunisti, ma è vero che anche per gli altri sta prendendo piede un eccesso sconsiderato di regolamentazione e centralizzazione. Più uno Stato è grande, più è difficile sfuggirgli. Dovremmo invece favorire un sistema economico per ciascuno Stato, lasciarli poi competere e vedere qual è il migliore. Con un’economia centralizzata la competizione si azzera, come tra gli individui. Mi fa orrore la proposta di Trichet di un ministero europeo per l’economia, mi fanno orrore gli aiuti alla Grecia e il Fondo Monetario Internazionale dovrebbe essere soppresso. Dalla crisi hanno guadagnato solo gli interventisti».
In Italia, terrebbe le parti di Giulio Tremonti, che non vuole aprire i cordoni della borsa?
«In pieno. Fare investimenti pubblici? Idea keynesiana folle. Guardiamo gli Stati Uniti: per questa via hanno raggiunto un deficit ormai incredibile, senza uscire dalla crisi come invece avrebbero fatto in passato. In Francia è successo qualcosa di ancora più allucinante.

Il governo ha contratto ingenti prestiti per uscire dalla crisi e poi ha convocato gli economisti per chiedergli: e adesso questi soldi come li spendiamo? Immagini che io vada in banca, che ottenga un prestito di 100mila euro e chiedessi poi a mia moglie: cosa ne facciamo? Suppongo divorzierebbe».
Dunque i governi sono i peggiori nemici del capitalismo?
«Esattamente».

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