L’Occidente rimpiangerà Mubarak

Il popolo in piazza e gli Stati Uniti ora hanno fretta di liberarsi di lui. Ma il leader egiziano poteva scappare con il tesoro come Ben Ali. Invece ha tentato di offrire una transizione verso la democrazia, mantenendo la stabilità del Medio Oriente

L’Occidente rimpiangerà Mubarak

Fidatevi lo rimpiangere­mo. E non solo noi, ma anche molti egiziani accampati a piazza Tahrir. E lo rimpiange­rà quel Barack Obama che og­gi ha tanta fretta di liberarsi di lui. Non siamo degli ammi­­ratori di Hosni Mubarak. Quando al Cairo ancora non si muoveva foglia già elenca­vamo limiti e difetti di un’au­tocrazia corrotta, irrispettosa dei diritti umani e poco atten­ta ai rivolgimenti politico so­ciali che stavano per travol­gerla.

Ma di fronte al caos, al­la confusione e al fanatismo che minaccia di rimpiazzarla è doveroso rendere onore e merito a Hosni Mubarak. Ha 82 anni, è sofferente e mala­to, ma può contare su una for­tu­na valutata intorno ai 40 mi­liardi di dollari. Dunque chi glielo fa fare. Potrebbe andar­sene all’estero, fuggire con i sacchi pieni di soldi e la fami­gliola al seguito come il com­pare tunisino Ben Alì. To­gliendo il disturbo in tutta fretta - come consiglia Oba­ma- potrebbe patteggiare un dorato esilio non nella torri­da Arabia Saudita, ma nelle magioni di famiglia dissemi­nate tra Londra e Beverly Hil­ls.

Invece il faraone non mol­la. Resta ad occuparsi del Pae­se governato per quasi trent’anni. Resta ben consa­pevole che in Egitto, come in tutto Medioriente, la capar­bietà può costarti non solo po­tere e ricchezza, ma la vita. Ha visto Saddam morire im­piccato, ma resta per garanti­re una transizione pacifica. Per dare il tempo a quelli che oggi lo vorrebbero appeso per i piedi di mostrarci il «nuovo» nascosto sotto le nebbie di piazza Tahrir.

Per comprendere con calma chi ne siano i protagonisti. Per evitare le derive di tipo irache­no evocate dai sanguinosi scontri di ieri al Cairo. Per consentire a tutti, anche a noi stranieri,d’individuare un alternativa al fa­natismo dei Fra­telli Musulmani e all’inconsi­stenza di Mohammed El Ba­radei. In fondo quel grigio bu­rocrate onusiano sempre pronto a flirtare con Teheran è stato incaricato di negozia­re per conto dell’opposizio­ne. Dunque lo faccia, discuta con il proprio avversario, di­mostri di esser in grado di of­frire un alternativa più accet­tabile.

Certo trattare con chi conosce il Paese e da trent’an­ni ne garantisce la stabilità non è facile. Si rischia di venir smentiti, sbugiardati. E allo­ra ecco l’evocazione di un Fa­raone pronto­da qui alle ele­zioni di settembre - a ribalta­re il tavolo e riprendere l’eter­no gioco. Balle. Quel gioco s’è definitivamente chiuso sa­bato quando il capo dei servi­zi segreti - generale Omar Su­leiman gli ha imposto di non ricandidarsi, di rinunciare a passare lo scettro al figlio Ga­mal e di consegnargli la cari­ca di vice presidente. Indie­tro non si torna.Per farlo Mu­barak dovrebbe sfidare non solo la piazza,ma anche quel­­l’esercito da cui dipende ora la sua sopravvivenza fisica. E soprattutto dovrebbe temere i dossier segreti di Suleiman. Per questo un ultimo guizzo del Faraone non è solo impro­babile, ma impensabile.

Giu­stificato è invece il suo deside­rio di venir ricordato non co­me un mariuolo in fuga, ma come un leader di lungo cor­so. Molti lo chiamano il Fara­one grigio, contrappongono il suo volto arcigno al carisma di Sadat e di Nasser. Ma sulle coscienze di quei due illustri predecessori pesavano due guerre con Israele costate al­l’Egitto 10mila morti nel 1967 e quasi 15mila nel 1973. Sa­dat fece la pace, ma chi la dife­se mettendo in gioco la pro­pria vita, rischiando perdite di consenso e sfidando gli al­tri sovrani mediorientali è sempre stato il «grigio» farao­ne.

Un Faraone spietato nel reprimere la rivolta fonda­mentalista, ma lungimirante nell’intravvedere i rischi di un movimento terrorista dal­le cui fila stava emergendo il numero due di Al Qaida Ay­man Al Zawahiri. Mentre il mondo sonnecchiava nell’in­consapevole attesa dell’11 settembre Hosni era già lì con il coltello tra i denti. E an­che quando gli sarebbe con­venuto, in cambio di consen­si e senile tranquillità, ignora­re le armi e i soldi iraniani in transito dal Sinai verso la Ga­za di Hamas, il vecchio Farao­ne non ha mollato.

Ha rispet­tato i propri impegni, i patti con Israele, le intese con l’America.Ora c’è da chieder­si se quelli che lo vorrebbero già lontano saranno in grado di fare lo stesso. Se saranno in grado di offrirci un Egitto an­cora in pace con Israele e sem­pre aperto all’Occidente. Se continueranno a garantire la difesa dei cristiani copti e i transiti di merci e petrolio dal Canale di Suez. Se questo è quanto vogliono, un Muba­rak senza carri armati e senza generali è il più innocuo dei loro mali.

Se invece vogliono qualcos’altro, quel Mubarak «disarmato» sarà il miglior tu­tore della futura democrazia. Perché nessuno in Egitto co­nosce meglio di lui avversari e nemici.

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