L’ultima follia politically correct: quote rosa obbligatorie nei Cda

RomaC’è una sola cosa che riesce ad unire centrosinistra e centrodestra in un grande e caloroso abbraccio: il politicamente corretto. In fondo conviene, anche se da una coalizione liberale ci si aspetterebbe più anticonformismo e coraggio nel superare i clichè pseudo-progressisti. Un caso classico, che ciclicamente si ripropone, è quello delle quote rosa. L’Italia, quanto a presenza femminile nei vertici aziendali, è molto indietro rispetto alla media europea, e questa non è certo una nota di merito (anche se va aggiunto che è il mercato ad essersi autoregolato così, non lo Stato). Ora, qual è la soluzione individuata, in sintonia bipartisan, per superare il supposto privilegio maschile nella selezione dei top management? Quella di creare un privilegio femminile per legge, riservando alle donne (ripetiamo: per legge, pena sanzioni!) il 30 per cento dei posti nei board delle società quotate in Borsa o partecipate dallo Stato. La proposta di legge (iniziative di due deputate, una Pdl, l’altra Pd) procede a vele spiegate, e dopo il via libera di Tremonti punta a ottenere una scorciatoia per non passare dall’aula, dove non è si poi così sicuri di ottenere la maggioranza.
In effetti non tutti sono d’accordo con questa forma di paternalismo pubblico, che autorizza lo Stato a ficcare il naso anche nelle scelte delle aziende private, violando la libertà di iniziativa economica e di fatto discriminando tra uguali. «Potrebbe non essere costituzionale» commenta Carlo Giovanardi, confortato anche dal parere del presidente emerito della Corte costituzionale Antonio Baldassarre. Ma il problema, oltreché giuridico, è anche di opportunità politica. Soprattutto per il centrodestra, che si suppone non debba soffrire di complessi buonisti. Eppure qui ci si accoda alla Ue, regno del politically correct (Strasburgo ha appena partorito un altro mostro, il «congedo di paternità obbligatorio»), seguendo l’ideologia imperante.
Perché ben venga il pluralismo nelle grandi imprese, ma allora perché non riservare, oltre alla quota per le donne, anche una quota per gli under 40, una quota per i filosofi, un’altra per gli omosessuali, un’altra per i cattolici osservanti e via così? Perché, tra le supposte minoranze discriminate, discriminare tra quelle più o meno meritevoli di sostegno pubblico? In realtà siamo già dentro un controsenso, perché la libertà di scelta non si può imporre per legge. Si dice: le aziende «miste» sono più efficienti. Intanto, gli studi si basano su aziende che hanno scelto liberamente i propri manager (maschi e femmine), senza quote fissate dallo Stato. E poi anche le statistiche su quelle perfomances, come ha spiegato Alessandro De Nicola (presidente della Adam Smith Society), non sono affatto univoche.
In Norvegia (dove la quota rosa nei cda c’è dal 2006) le donne-manager vengono soprannominate «gonne dorate», perché guardate come raccomandate di Stato. E lì la femminilizzazione dei cda non è stata affatto correlata ad un aumento di efficienza. Anzi, si è visto che «potendo scegliere, gli stessi consigli norvegesi a forte presenza femminile nominano come amministratori delegati nel 98% dei casi degli uomini». Non perché gli uomini siano più preparati delle donne, ma perché le aziende reputano vitale poter scegliere liberamente da chi farsi guidare. In Italia siamo al 6% di presenza femminile nei board, molto scarsa, ma quella delle donne non è certo l’unica categoria outsider discriminata dai gotha della finanza e del potere economico.

È solo che la lobby femminile, sorretta dal conformismo dei colleghi, ha più mezzi per farsi sentire. Ma tutto questo, con la meritocrazia, non c’entra nulla. E un centrodestra liberale dovrebbe promuovere il merito, non le categorie protette.

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