La legittimità della Repubblica spagnola del 1936 è uno degli argomenti ricorrenti con cui, allora come ora, si tende a sottolineare chi fosse dalla parte giusta della Storia. Ha una sua verità, inficiata però dal suo essere utilizzata a senso unico. Anche il governo Kerenskij nella Russia del 1917 era legittimo, ma sarà la Rivoluzione d'Ottobre che lo spazzerà via a godere delle simpatie dei giuristi democratici quanto improvvisati.
De resto, la Spagna dell'epoca era talmente contraddittoria quanto a legittimità che, appena due anni prima e ultimo in ordine di tempo, c'era stato, da sinistra, un tentativo di rovesciare con le forze il governo di coalizione di centro-destra, la cosiddetta insurrezione delle Asturie, e a predicare la rivolta armata c'era anche quel Manuel Azaña che sarà in seguito il presidente della Repubblica durante la guerra civile...
Anche il clima intellettuale appare in netto contrasto con l'idea di un sistema democratico nel pieno delle sue funzioni, rispettoso delle opposizioni e vittima di un golpe brutale. Uno storico come Antony Beevor ha messo in risalto come la oratoria retorica dei socialisti spagnoli fosse di gran lunga più aggressiva di quella dei loro compagni francesi o inglesi. Era El Socialista, il giornale del Psoe, a scrivere: «Armonia? No! Guerra di classe. Odio fino alla morte della borghesia criminale».
Non era la destra e equiparare il socialismo spagnolo al bolscevismo, ma il leader socialista Francisco Largo Caballero a sostenere che «le differenze fra i comunisti e noi non sono altro che parole». Quanto a lui, era soprannominato il Lenin spagnolo Nel suo The Spanish Civil War, Stanley G. Paine sottolinea come, a differenza di quanto avvenne in Italia e in Germania, la violenza politica nelle strade come nei luoghi di lavoro fu negli anni immediatamente precedenti la guerra civile una prerogativa più della sinistra che della destra, e fu anche questo a distruggere l'autorità e la credibilità del sistema parlamentare.
Va infine osservato che se all'inizio degli anni Trenta i socialisti spagnoli si ritenevano tutt'uno con i comunisti, avendone rubato slogan e progetto politico, erano quest'ultimi, in virtù dele direttive del Comintern guidato da Mosca, a definire i primi socialfascisti, mentre gli anarchici del Cnt erano derubricati a anarco fascisti e quello che sarebbe poi divenuto il Poum, fascisti trockisti Sarà solo nel 1935 che, grazie a Georgi Dimitrov, il Comintern sposerà la politica del fronte popolare e darà il via libera alla fraternità fra compagni uniti nella stessa lotta, una fraternità di cui poco dopo i comunisti spagnoli e i loro consiglieri sovietici si serviranno per fare terra bruciata, facendo fuori anarchici e socialisti, trockisti o meno che fossero
Il tema della legittimità è insomma la foglia di fico con cui la letteratura di parte repubblicana (narrativa, poesia o memorialistica che fosse) nobilita una scelta di campo lì dove la barbarie non aveva un unico colore, ma era tanto nera quanto rossa. Fin dall'inizio, più o meno coscientemente, si elaborò una contrapposizione dove da un lato c'era la libertà e la democrazia, dall'altro la dittatura e il fascismo e questa lettura è rimasta nel tempo egemone, per quanto sempre più sottoposta a usura, e insomma è la leggenda che ha prevalso sulla realtà. Quando uno scrittore come Javier Cercas scrive che «i fascisti vinsero la guerra, ma persero la storia della letteratura» dice una cosa vera, a patto di ammettere che la letteratura non coincide con la verità.
Uno dei meriti di La brigata delle ombre, di Antonio Di Grado (La nave di Teseo, 303 pagine, 22 euro), sta nel tentativo di fare ordine in questo proliferare di scritti che hanno la guerra civile per protagonista e di separare il grano dell'ispirazione artistica dal loglio della retorica di parte. Di Grado è perfettamente consapevole che, specie fra quegli scrittori che la guerra in qualche modo la vissero, oltre che scriverla, se si eccettua l'Orwell di Omaggio alla Catalogna, «non v'è quasi traccia degli eccidi stalinisti di anarchici e trockisti che indebolirono il fronte repubblicano favorendone la sconfitta e soprattutto si aggiunsero alla sterminata galassia di crimini perpetuati dalla dittatura sovietica. Che si trattasse di ignoranza o di omertà, è comunque una colpevole lacuna, in una letteratura che presume di testimoniare ma sovente esorta o pontifica, esalta e rimuove».
A questa esaltazione e/o rimozione non sfuggiranno nemmeno gli intellettuali della generazione successiva, a cui se non altro la storia, la sua conoscenza, avrebbe dovuto servire se non da ispirazione almeno da guida. Il caso più esemplare, per la statura del suo autore, è quello di Leonardo Sciascia, che nel recensire Gli intellettuali e la guerra di Spagna di Aldo Garosci, riesce persino a trovare nel Diario della guerra di Spagna dello stalinista Michail Efimovich Kol'cov «il travaglio e la crisi dello spirito liberale», il che, come commenta Di Grado, che di Sciascia è stato amico e ammiratore, è, va da sé, «pressoché insostenibile».
Emerge dal libro di Antonio Di Grado la consapevolezza che se da un lato una Paese maturo deve fare i conti con una «memoria divisa», dall'altro non c'è nazione moderna «che non sia nata da un cruento rivolgimento, politico o religioso, che l'ha spaccata in due (). E non c'è democrazia autentica (ma ce ne sono ancora?) che non si fondi su nette scelte di campo, o appassionate professioni di fede; non c'è autentica democrazia che non si fondi sulla bipolarità, sul confronto serrato ma civile fa idealità, opzioni, valori, progetti inevitabilmente diversi e contrapposti».
Sotto questo aspetto, è esemplare un romanzo di Arturo Pérez-Reverte, Linea de fuego, non ancora tradotto in italiano, e probabilmente per questo non citato nell'amplissima rassegna critica fatta da Di Grado e che abbraccia in pratica un arco temporale di settant'anni. Pérez-Reverte non solo racconta le due Spagne che si contrappongono, nonché la terza, la più dimenticata e la più offesa che alla guerra guarda con timore e con orrore, ma lo fa dando alle parti in causa pari dignità, consapevole che la scure del Bene e del Male, del buono e del cattivo, non rispecchia la realtà.
In La brigata delle ombre, ci sono naturalmente tutti i classici, da Per chi suona la campana, di Hemingway, a La speranza, di Malraux, per citare soltanto due titoli esemplari. E c'è anche la sottolineatura di come per molti di quegli scrittori che raccontarono a caldo la guerra di Spagna, ci fosse dell'estetismo e del vitalismo, se non dello snobismo, e il tutto quasi sempre a buon mercato. Viene alla mente la bella definizione di Stephen Spender, «a spoiled children's party», una festicciola per bambini viziati Esemplare a questo proposito è un verso della poesia Spain, di W. H. Auden «la consapevole assunzione di colpa nel delitto necessario», che scatenerà il sarcasmo di Orwell: «Quella frase può averla scritta solo una persona per la quale l'assassinio è al massimo una parola (). Il tipo di amoralità di Auden è possibile soltanto se siete il genere d'uomo che si trova sempre in un altro posto nel momento in cui si preme il grilletto».
Molta attenzione nel libro di Di Grado è naturalmente riservata all'Italia e bene fa il suo autore a mettere in contrato fra loro due siciliani come Vittorini e Brancati, fascisti entusiasti da subito, antifascisti delusi dal fascismo-regime dopo.
Ma se nel primo caso «l'operazione di auto-antologizzazione e accorto montaggio dei suoi scritti fascisti abilmente riciclati in funzione antifascista» provoca uno sconcerto misto a ripulsa e l'esaltazione della guerra di Spagna è troppo melodrammatica per non essere sospetta, nel secondo c'è l'approdo a una sofferta meditazione sulla cattiveria del mondo e dell'essere umano. Brancati è un lettore avvertito di Leopardi e di Chateaubriand, Vittorini un lettore strumentalmente entusiasta di Hemingway, di cui scambierà il vitalismo individualista per impegno militante.
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