Lavia Macbeth? Una rosa senza profumo

Se avesse portato in scena Macbeth con semplicità, come un artista della sua esperienza e della sua bravura potrebbe egregiamente fare, durante lo spettacolo non ci saremmo chiesti più volte: «Ma cosa stiamo guardando? Cosa significa? Dov’è Shakespeare? Dove la poesia di questa straordinaria tragedia? Dove la complessità emotiva dei protagonisti?»
Gabriele Lavia - regista e interprete principale dell’allestimento shakespeariano in cartellone all’Argentina - ha scelto una strada espressiva che corre in direzione opposta alla semplicità, alla tradizione e pure al teatro di ricerca. Il risultato è un lavoro dove tutto appare falsato, eccessivo, confuso, complice in primo luogo proprio la recitazione dei protagonisti.
In una scena buia, dove risalta la presenza di un tavolo/camerino posto sul proscenio (esplicito richiamo a una lettura metateatrale del testo che, malgrado le allusioni alla «recita» del potere e della sorte, non viene sviscerata in modo chiaro) e dove l’azione retrocede spesso sul fondo, proponendo ora maestosi baldacchini, ora cinematografiche mense imbandite, ora una camera da letto con grandi specchi e mobili stile liberty, si consuma la parabola sanguinaria di Macbeth e sua moglie. C’è da dire che in precedenti regie di Lavia questo affastellamento di oggetti e stili funzionava bene (si veda L’Avaro). Qui risulta invece davvero sovrabbondante, quasi egli avesse voluto ricapitolare il suo repertorio creativo autocitandosi di continuo come regista e come attore. Ma è proprio il troppo gigionare, il troppo barcollare, il troppo compiacimento che pesa sul suo personaggio: una specie di idiota alla Forrest Gump tutto picchi umorali. Senza dubbio, però, la figura che in questa messinscena subisce di più è Lady Macbeth, affidata all’androgina Giovanna Di Rauso: la sublime profondità delle battute viene «sbranata» da un’interpretazione finta, isterica, metallica, senza spessore persino nei nevralgici passaggi della follia. Follia che nell’opera non è isteria elettrica, bensì disperazione, rimorso crudo. Vogliono forse farci credere di essere dei fantocci in mano al destino? Probabilmente è così, ma perché tanto stridore? Anche il resto del cast, più sobrio, muovendosi tra rigore militarista e pulsioni ancestrali (l’immagine delle tre streghe/parche/cameriere ricorda Nekrosius, Hamletmachine di Wilson, Genet), ha qualcosa di stonato. Manca insomma un «accordo» di base su cui impostare la sinfonia.

Peccato ! E pensare che la grandezza di Shakespeare è come una rosa fiorita solitaria nel bel mezzo di un prato. Per coglierne colori e profumi basta avvicinarsi piano, con grazia e naturalezza. Repliche fino al 29 aprile.

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