Barbara Minghetti è una sovrintendente molto smart. Dal 26 gennaio è consulente numero uno del Regio di Parma e da 12 anni è al timone del teatro lirico di Como, un'istituzione di provincia che di provincia non è. Con un budget minimal di 500mila euro, infatti, si fa largo fra i giganti del settore condividendone anche il medagliere. Un esempio: il Sociale di Como è fresco di vittoria per la miglior opera al concorso internazionale Fedora, competizione di Parigi dove - per il balletto - ha vinto un colosso come la Scala. È un teatro che inanella progetti innovativi e complementari rispetto ai programmi di tradizione, ha un forte seguito di pubblico, è un prodotto export ricercato dai nuovi mercati: sta per sbarcare in Oman, nel teatro degli artisti vip, Riccardo Muti compreso.
È stata appena nominata braccio destro del nuovo direttore generale del teatro di Parma. Fino all'ultimo, però, era stato fatto il suo nome per la direzione. Cosa è successo?
«In realtà è stata una mia scelta, ho deciso di continuare a seguire il Teatro Sociale di Como».
A Parma promette più marketing e attenzione alle nuove generazioni.
«Pensiamo di promuovere progetti di apertura del teatro alla città e alle nuove generazioni. Sono compresi i progetti education».
Vantaggi e svantaggi del sovrintendere un teatro fuori dalla rosa delle Fondazioni liriche.
«La fortuna è quella di lavorare in un ente molto agile e flessibile. Le difficoltà sono di natura economica. All'estero lavorano con tranquillità e programmano per i successivi cinque anni perché è chiaro il budget su cui potranno contare. Qui si naviga sempre a vista».
Le hanno mai proposto un ruolo all'estero?
«Per la verità no».
E in Italia, al di là del Regio di Parma?
«Più di una volta, ma sono rimasta a Como. Erano proposte giunte in momenti sbagliati. Spesso ero impegnata in progetti cui tenevo molto e che volevo portare in fondo. E poi ho anche una vita privata, due figli per esempio, sarebbe stato complicato cambiare città».
Avete vinto con «Milo, Maya e il giro del mondo», opera in prima mondiale a Como a febbraio. Librettista e compositore sono trentenni. Come è arrivata a loro?
«Volevo un'opera sui temi di Expo. Lisa Capaccioli aveva già vinto un concorso per librettisti, e mi era piaciuto il soggetto del suo lavoro. Ho riflettuto su chi avrebbe potuto mettere in musica il testo: non poteva che essere Matteo Franceschini, compositore che a Parigi era in finale di concorso con ben due opere».
Certo che lei ha avuto un bel fiuto.
«Non è il compositore vecchia maniera, chiuso in se stesso. Franceschini è aperto, fa progetti a tutto tondo. I teatri italiani sono musei impegnati nella conservazione del patrimonio del passato, ed è un bene, ma avremmo bisogno anche di novità».
Perché non ci si muove in questa direzione, è una questione di costi o di assenza di visioni?
«Quando vogliono un ricambio di pubblico, i colleghi stranieri giocano la carta dell'opera contemporanea. Mi spiace vedere la scarsità di nuove commissioni in Italia anche se qualcosa si sta muovendo, perfino il ministero sta dando chiare indicazioni».
Di che tipo?
«Chiede ai teatri lirici di dedicarsi di più ai giovani, di sensibilizzare un nuovo pubblico. Per troppi anni la lirica è stata considerata d'élite, in contraddizione con la sua natura che semmai è proprio popolare».
All'estero i titoli di contemporanea trainano un nuovo pubblico?
«Pare fantascienza, da noi vale l'equazione contemporanea uguale teatro vuoto. Invece le opere contemporanee spesso sono le più vicine alla sensibilità dei giovani, affrontano temi d'attualità e si aprono al sociale».
Tante colpe ricadono su alcune sovrintendenze, troppo ingessate e impiegatizie. Non crede?
«Diciamo che ci sono diversi modi di pensare al teatro. A me piace un teatro aperto alla città, senza barriere, che presenti titoli classici, ma che allo stesso tempo sappia creare attività collaterali. E queste attività collaterali sono progetti per le scuole, flash mob, progetti di coinvolgimento della cittadinanza: tutte cose che non vanno intese come dettagli, ma come il cuore».
Addirittura il cuore?
«Sì, perché sanno fidelizzare il pubblico, creano un'atmosfera diversa intorno all'opera in cartellone».
Il caso di 200.Com. progetto di fare cantare la città. Ci spieghi un po' come funziona.
«Siamo partiti con i Carmina Burana , quindi Cavalleria rusticana , e ora Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Facciamo laboratori di coro affinché alcuni spettatori possano poi partecipare all'esecuzione stessa. Anche questo è un modo per scardinare le regole, per far sì che il pubblico non sia più solo frontale ma coinvolto nell'azione».
Adesso che nuovo progetto si sta inventando?
«Opera Baby, un format per bimbi dagli 8 ai 36 mesi, il progetto debutta in primavera, una performance di teatro musicale, immagini ed esperienze tattili per guidare i primi passi dei neonati verso il mondo dell'opera. Poi c'è questa esperienza speciale in Oman, anche lì non ci limitiamo ad allestire un'opera».
Bensì?
«Siamo già a Doha per l'attività di preparazione, quella educativa. Stiamo formando gli insegnanti omaniti che, a loro volta, preparano i ragazzi per partecipare al nostro Flauto Magico di Mozart. È un progetto intrigante, una nuova sfida perché formiamo persone e spesso ignare della musica classica d'Occidente. Uno stimolo per il nostro team».
Lei rappresenta l'Italia nel board di Opera Europa. È un'istituzione focale per il mondo dell'opera ma sappiamo che non è granché frequentata dai sovrintendenti italiani. Perché?
«Me lo sono chiesta spesso. Eppure questi incontri fra intendenti provenienti da tutt'Europa sono importanti e stimolanti, ci si confronta su temi di ordine amministrativo, di gestione delle masse e dei sindacati, sul marketing. Sono franca: se non avessi frequentato Oe non sarei riuscita a fare coproduzioni e forse mi sarebbero sfuggiti bandi di concorso determinanti per la nostra vita finanziaria».
Ha una laurea in Filosofia. Come si fa a passare da Socrate al timone di un teatro lirico?
«Inizialmente ero molto attratta dal teatro di prosa e dallo spettacolo dal vivo in generale, così frequentavo l'università per gli studi di Filosofia e in contemporanea il Piccolo di Milano. Poi mi imbattei nell'Aslico e lì mi innamorai della lirica che frequentavo come spettatrice, ma niente di più».
Produrre con un budget di 500mila euro cosa implica?
«Curare i conti in modo maniacale, non si può sgarrare. Vuol dire cercare continuamente opportunità. Si va dai 75mila euro del premio Fedora, per esempio, alla vendita di progetti speciali».
Cosa ci dice della nuova Scala, quella della gestione Alexander Pereira?
«Mi ha fatto piacere vedere la sua «Cenerentola» per bambini. Finalmente la Scala con un pubblico giovanissimo. Ho voluto assistere a una rappresentazione ed è stato emozionante. Da 20 anni lottiamo per portare l'opera fra i bambini, finalmente si muove anche un grande teatro. L'Opéra di Parigi e l'Opera House di Londra da tempo si muovono in questa direzione».
Scala, dunque, promossa?
«È ancora presto per dirlo. Pereira è a Milano da poco. Mi piace la sua idea di opera per bimbi o del fatto che presto la Scala sarà aperta sei mesi non stop. Bisogna capire come si muoverà dopo la fase Expo. Rimango convinta che la Scala sia una stella internazionale, ma allo stesso tempo anche teatro della città di Milano, quindi progetti mirati sulla città sono auspicabili».
Il teatro che più ammira?
Quello di Birmingham. È un esempio di conduzione illuminata, il direttore artistico Graham Vick sta facendo opere nei luoghi più impensati: da tendoni da circo a capannoni industriali».
Le piacciono artisti come Cecilia Bartoli o Placido Domingo, bravi nel coniugare le ragioni dell'arte con quelle del marketing?
«Essere buoni imprenditori di sé è ormai una necessità.
Il fatto che un artista abbia anche un'idea imprenditoriale, che sappia elaborare progetti già in prospettiva di operazioni di marketing e comunicazione è un valore aggiunto molto prezioso. Stento a pensare all'artista che non vuole occuparsi di soldi e di progetti. È un lusso del passato».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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