Gheddafi? Non solo non lascia, ma contrattacca. L’altro giorno ha riso in faccia alla giornalista Christiane Amanpour che gli chiedeva se non fosse giunto il momento di farsi da parte, oggi dimostra con i fatti che non intende davvero farlo. E che c’è poco da ridere. Le forze a lui fedeli sono all’offensiva su più fronti: a Misurata, terza città della Libia a 200 chilometri da Tripoli, dove ieri ci sono stati combattimenti che hanno permesso al figlio-portavoce Seif el-Islam di affermare che la città «non è in mano ai ribelli»; a Zawia, la città a 30 chilometri dalla capitale dove i rivoltosi avrebbero respinto un attacco dei lealisti di Gheddafi, ma dove l’assedio continua mentre i ribelli parlano di una pressione su Tripoli che per ora non si vede; addirittura ad Agedabia, poco lontano da Bengasi, la capitale della “nuova Libia”, dove l’aviazione gheddafiana avrebbe centrato due depositi di armi per indebolire le già scarse disponibilità dei suoi nemici interni. Si parla poi di confine libico-tunisino di nuovo sotto il controllo delle forze fedeli al raìs, di un loro attacco imminente alla città di frontiera di Nalut, di ripetuti attacchi già avvenuti contro Zenten, centro prossimo a Tripoli nelle mani dei ribelli. E perfino di un flusso continuo di mercenari del Niger su Sebcha, il centro principale del Fezzan, il cuore del sud desertico della Libia da cui Gheddafi intenderebbe far partire una controffensiva.
Tutti elementi che dimostrano che la guerra civile in Libia non è un’ipotesi: è già una realtà. E che le sue prospettive non somigliano così tanto a quelle che vengono abitualmente prese per buone, con Gheddafi assediato nel suo bunker e i suoi avversari in inarrestabile marcia per farla finita con lui. Tanto da far dire al solito Seif che «in Occidente non avete idea di come le cose stiano realmente in Libia» e da farlo ringhiare all’indirizzo del premier britannico che chiama all’aumento delle pressioni su Gheddafi «Cameron vuol fare l’eroe, ma farebbe bene a smettere di pensare con bramosia al petrolio». Ma anche da far esprimere al Pentagono inviti alla prudenza rispetto al progetto di blocchi aerei sulla Libia: difficile far rispettare una zona di non volo, spiegano i generali americani, prima bisognerebbe mettere fuori combattimento l’antiaerea.
La posta in gioco in Libia, come ha ripetuto ieri il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, è alta. Gli Stati Uniti insistono nel pretendere da Gheddafi che «se ne vada subito, senza ulteriori ritardi e violenze» e «stanno pensando di processarlo per l’attentato di Lockerbie del 1988». Ma il tempo può essere un problema», perché la capacità di resistenza del regime è stata sottostimata. «Gheddafi cadrà - ha detto ieri il nostro ministro degli Esteri Franco Frattini - ma potrebbe volerci qualche settimana». L’Italia è pronta a mettere a disposizione le sue basi per far rispettare un’eventuale no-fly zone, purché ci sia «una chiara indicazione da parte dell’Onu». Il ministro però è cauto sull’ipotesi, non esclusa da Washington, di una soluzione esilio per il raìs libico: «E chi se lo prende? Finora solo il Venezuela, neppure esplicitamente, e lo Zimbabwe hanno espresso una disponibilità». Frattini ha anche osservato prudentemente che è giusto sospendere il trattato di amicizia italo-libico, ma che a suo avviso il Parlamento commetterebbe un errore se lo annullasse: dalle ceneri del regime di Gheddafi potrebbe infatti presto nascere una nuova Libia e pertanto «quando ci sarà una controparte che noi riterremo affidabile riprenderemo l’attuazione di quel trattato». Ma l’individuazione di quella controparte «l’Italia non la può fare da sola».
Parole che riecheggiano l’invito alla cautela già espresso dal premier Silvio Berlusconi, che ieri sera ha presieduto un vertice di governo sulla crisi libica al termine del quale è stata annunciata una issione umanitaria in Tunisia. Berlusconi continua a ricordare che la situazione in Libia «è in continua evoluzione», che la caduta di Gheddafi non deve essere considerata certa e che la posizione dell’Italia è particolare, dovendo tenere conto degli stretti rapporti tra i due Paesi, di un’importante esposizione economica, di una collocazione geostrategica ben diversa da quelle dei partner europei e di un elevato rischio di immigrazione di massa.
Di questo certamente si dovrà parlare il prossimo 11 marzo nel vertice straordinario dell’Unione Europea che il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, che ieri ha sentito per telefono Berlusconi, ha annunciato ieri. In quell’occasione (tra dieci giorni!) Van Rompuy farà «proposte al Consiglio europeo sulle linee strategiche della reazione dell’Ue agli sviluppi in Libia e nel nostro vicinato meridionale».
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