Stati Uniti. L’impiegato che davanti ad una lunga fila in attesa frigge la carne sulla griglia in un fast food, sbotta. Si impossessa del microfono accanto al registratore di cassa ed apostrofa uno ad uno i suoi colleghi con un sonoro “vaffa..” che estende anche a quasi tutto il resto del pubblico. Il suo show termina con il lancio dell’hamburger in faccia ad un incredulo cliente. Poi urlando annuncia a tutti che se ne va, si licenzia. Siamo sul set del film Half Baked (1998) ma potremmo essere nel mondo reale di oggi.
Il sogno di mollare un lavoro (perfino quello fisso) che non soddisfa e, contemporaneamente, di mandare al diavolo alcuni compagni di lavoro o addirittura il capo è tanto frequente quanto antico.
Dai più solo cullato e fantasticato ma in fondo sentito come un’impresa titanica da realizzare, rimane appunto un sogno tra i più rivoluzionari, soprattutto per ragioni socioculturali.
E soprattutto in Italia.
Eppure il nostro retaggio, sostenitore fervente del sacro posto fisso da salvaguardare per tutta la vita, baluardo difensivo entro le cui mura dormire sonni tranquilli, si sta erodendo.
Colpa della più che emergente gig economy (il lavoro a chiamata occasionale) che incalza sdoganando, tra gli altri, il concetto della precarietà fattasi normalità.
Il mito del tanto anelato lavoro stabile vacilla e, per sostenersi, in alcuni casi, prende sottobraccio la gig economy. Il matrimonio d’interessi risulta infelice. Un salario minimo decente, la tutela del lavoro, la stabilità emotiva prima ancora di quella economica, sono valori in agonia.
E gli americani, che non hanno mai venerato il posto fisso, stanno mostrando con fermezza la volontà di riappropriarsi di quegli stessi valori che noi vediamo sfumare.
E si sono lanciati in una fase che non si sa se sarà duratura ma che lascia presagire una rivoluzione nel mercato del lavoro interno che ha tutto il sapore di una silenziosa potente protesta.
La chiamano la Great Resignation (o periodo delle grandi dimissioni) : avanza come un’onda gigante.
I lavoratori stanno abbandonando la loro occupazione e lo stanno facendo in massa.
Secondo il Bureau of Labour( Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti ) sono 4,3 milioni gli americani che nell’agosto del 2021 hanno lasciato, e lo hanno fatto volontariamente, il proprio lavoro, per un totale di 11 milioni complessivi da aprile 2021.
Un record assoluto che va contestualizzato e coincide con la pandemia.
Ma quali sono le cause alla base di questo fenomeno?
Il professor Anthony Klotz, psicologo e docente all’Univeristà A&M del Texas, intervistato da Bloomberg Businessweek dopo aver studiato centinaia di casi di abbandono del lavoro, individua nel burn out post pandemico (un vero e proprio esaurimento emotivo) uno dei motivi principali della Great Resignation.
Seguono la paura del contagio sul posto di lavoro, la mancanza di una rete di supporto per le famiglie con bambini piccoli, le incomprensioni con il datore di lavoro dimostratosi poco sensibile verso la complicata gestione famigliare durante la pandemia e, ancora, la mancanza di volontà di garantire una certa flessibilità nel rientro al lavoro, sia in termini di orario, magari con un part time, che di luogo (con la possibilità di continuare con lo smart working).
Gli americani, secondo Klotz, sono stati costretti a rivedere la loro relazione con il lavoro (in particolare coloro che erano impiegati nel settore dei servizi) ed a optare per le dimissioni laddove l’offerta non incontrava più i valori e nuovi bisogni ritenuti importanti.
La Great Resignation non è un fenomeno isolato, lo dimostra anche il forum di Reddit denominato Antiwork (antilavoro) dove quasi un milone di iscritti racconta le prorpie dimissini sul posto di lavoro.
Le storie di Antiwork hanno più o meno lo stesso contenuto: il datore di lavoro o chi fa le sue veci chiede più flessibilità o disattende promesse per permessi per motivi famigliari o di salute prima accordati e poi revocati all’ultimo minuto a causa di esigenze aziendali, alla reazione di mancata collaborazione del lavoratore, i toni si fanno tesi, in alcuni casi minacciosi, spunta lo spettro del licenziamento e della conseguente perdita della copertura sanitaria gratuita e, colpo di scena: prima che sia il datore di lavoro a farlo è il lavoratore che lascia teatralmente il suo posto. “Meglio libero e senza copertura sanitaria che schiavo”, scrive per esempio un antiworker.
Chiedersi se questa valanga di screenshot sia tutta autentica è assolutamente lecito, eppure le migliaia di like e l’empatia che generano (c’è chi si dice ispirato e deciso ad emulare le gesta) fanno pensare che sul posto di lavoro, dopo la pandemia, qualcosa non funzioni più.
I rari interventi di iscritti che vivono fuori dagli Stati Uniti, in Nord Europa per esempio (Olanda e Francia) riportano esperienze meno conflittuali sul lavoro.
Seguono richieste di informazioni e aiuto da parte di americani su come trasferirsi in Europa e trovare un impiego.
A completare il quadro, su tutto il territorio americano, un’ondata di scioperi senza precedenti ed una aumentata popolarità per le Union.
Più di 100.000 lavoratori in agitazione da ottobre in quello che è stato definito con un neologismo “striketober”.
Dai minatori dell’Alabama, alle infermiere del Massachusetts, dagli operatori ospedalieri di New York, ai 6.500 docenti in California o ai 60.000 lavoratori dell’industria cinematografica di Hollywood sull’orlo di uno sciopero che denunciavano l’industria di voler recuperare il tempo perduto con orari di lavoro impossibili. Le richieste: aumenti economici, copertura sanitaria, piani di pensionamento, migliori condizioni di lavoro, riconoscimento della professionalità.
Equilibrio tra vita lavorativa e sociale, salute, famiglia, relazioni sociali, valori che sorpassano quelli
materiali e un sogno americano da ricostruire.Mamma mia dammi 100 lire che in Nord Europa voglio andar, perché quelle sono le coordinate geografiche dove coltivare il nuovo sogno, dove l’erba del vicino sembra sempre più verde.
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