Forse è un diritto che ci manca, per usare lo slogan del recente concertone del primo maggio: provate a ironizzare su un nero che dirige un'orchestra sinfonica o a fare delle battute su una donna colonnello che pianifica un'operazione militare: come minimo vi ritroverete un avviso di garanzia nella cassetta della posta (e se siete giornalisti e lo scrivete, una censura da parte dell'Ordine). Ma se volete prendere in giro Mick Jagger, Neil Young o Bob Dylan, che con le loro profondissime rughe continuano a vivere da rockettari, mossette sul palco comprese, accomodatevi, non accadrà niente e anzi sarà un generale ridacchiare e darsi di gomito. A quanto pare tutti i diritti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. L'«ageismo», termine coniato sulla falsariga di «razzismo», fatica ad essere accettato e poi non lo conosce nessuno. È questo il nervo scoperto solleticato da Sebastiano Spicuglia in un romanzo pubblicato da Baldini+Castoldi (Io sono l'orchessa, pagg. 208, euro 18); Laura, la bella e giovane protagonista, seduce un vecchio di settantanove anni e se lo porta a casa, innescando la reazione scandalizzata dei benpensanti - parenti, amici, colleghi - concordi nel vedervi un gesto, semplicemente, folle.
Laura, in realtà, è un'orchessa per modo di dire: cassiera in un supermercato, più che altro è sessualmente vorace e ad un tempo oppressa. Gli uomini ne abusano a piacimento, sfruttandone la condiscendenza: «Sono stanca e schifata. Sbaglio, con gli uomini. Basta soltanto un sorriso meno freddo, una mano un po' più calda, un abbraccio fraterno, ed ecco che non ci riesco proprio a non ricambiare quell'attimo di attenzione con l'unica cosa che anche se la do resta sempre mia». Il quadro della virilità che ne emerge, in ogni caso, è impietoso: i maschi sono ridicoli, arroganti, patetici (non a caso la sua migliore amica, Monica, preferisce le donne). Patetico, per esempio, il caporeparto («Viene da Vizzini, giù in Sicilia, e si dice che il suo passato sia oscuro: una fuga all'estero, un rivale in amore trovato sbranato dai maiali in un podere di Militello»). Redarguita dall'uomo per aver pensato ad alta voce, insulti al cliente compresi, mentre batteva lo scontrino, Laura scorge fra gli scaffali colmi di merce un vecchio che fa scomparire nella tasca un prodotto. Quando lo sorprende, lui crede che voglia denunciarlo, invece è il colpo di fulmine. «Fermo, ti dico, e pesante come una colpa la mia mano cala leggerissima sulla tua spalla. Fermo, non fare nulla, zitto. Seguimi, ti offro un caffè». Diventano amanti, finalmente un uomo diverso dagli altri, la virilità è un incubo dal quale è riuscita a risvegliarsi...
Il tema scandaloso, a dire il vero, rischia di offuscare i punti di forza di un romanzo dominato da un regime che per comodità si potrebbe definire titanico: forze primigenie di ogni tipo (letterarie, sociali, sessuali) si dispiegano senza badare alle conseguenze, materiandosi nelle intuizioni retoriche della protagonista. Un atto banale come mangiare la carne in scatola si trasforma in un salto mortale: «Mucchina, stavi lì e brucavi finché te l'hanno permesso, e poi... be', poi non so come ma sei finita qui. Nella scatoletta. E io la mangio. Anzi, non la mangio più. È sempre un errore risalire all'origine delle cose...».
Una simmetria pressoché totale regna fra la pagina e le riflessioni incontrollate, ma taglienti di Laura che, come visto, ha l'abitudine di pensare ad alta voce; e non è già questo un colpo di genio umoristico, trasformare il caro, rassicurante monologo interiore in una sterminata serie di gaffes? E il teatro della crudeltà fintamente pacificato che domina in questo romanzo, non avrà piuttosto mire beffarde? Alla fine anche il vecchio cleptomane, che vive in una soffitta dalle cui pareti pendono divise militari, costruisce bambole e come Amleto veste di nero, potrebbe essere un'altra cosa, non ciò che sembra: magari un boomerang che torna indietro e uccide il lettore ipocrita, soprattutto se il lettore è un critico letterario, smascherando le sue innominabili perversioni antiquarie.
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