LUCIANO FABRO L’Arte Povera diventa un lusso

Materiali nobili per le opere dello scultore recentemente scomparso, esposte al Museo Madre di Napoli

L’avventura di Luciano Fabro inizia con un’impronta nel 1962. Un disco trasparente ha al centro un’impronta sabbiata, mentre quello opaco porta al centro l’impronta della mano trasparente. È un’opera molto significativa per l’artista che si propone di «prolungare il proprio corpo in tutte le cose del mondo».
Luciano Fabro, nato a Torino nel 1936 da genitori friulani, trasferitosi a Milano nel ’59, esponente di spicco dell’Arte Povera, star dell’Accademia di Brera per molti anni, forse il più grande scultore italiano, è scomparso nel giugno scorso. Ora il museo Madre di Napoli gli dedica la mostra intitolata «Didactica magna minima moralia» (titolo della sua tesi su Comenio), a cura della figlia Silvia Fabro con Rudi Fuchs.
La mostra era stata progettata dall’artista stesso, che aveva scelto di raccontare una microstoria, quella che va dal ’62 al ’67, la preistoria della sua opera che precede il momento dell’Arte Povera. Nel ’63 realizza Buco, Raccordo anulare e Tubo da mettere tra i fiori. L’analisi verte non tanto sulle cose, quanto sulle relazioni con lo spazio, il movimento, lo spettatore. Del ’65 è la prima personale alla galleria Vismara di Milano: Jole de Sanna scrive che «questa mostra cambia il concetto stesso di mostra per il rapporto che le opere stabiliscono con lo spazio, interlocutorio, e per il contrappunto teorico immanente a quanto avviene». Ogni opera infatti è accompagnata da una scritta dello stesso artista. Le cose infatti lo interessano non a livello emozionale, ma «per il loro valore conoscitivo».
E proprio perché il corpo è misura di tutte le cose, le successive opere, Indumenti (1966), riguardano il corpo, su cui sono realizzati, e lo spazio che lo circonda. Nel ’67 Carla Lonzi presenta un’importante mostra di Fabro alla galleria Notizie di Luciano Pistoi a Torino: In cubo è un cubo di tela a misura di persona e «in questa camera d’aria delimitata da superfici e da spigoli tutti uguali, concepita a misura del singolo spettatore, l’uomo diventa solo elemento di rapporto con la porzione di spazio che gli compete». Alcuni mesi dopo nella stessa galleria espone la prima Tautologia, un’opera cioè che è quello che è, dice quello che dice e non rimanda ad altro che a se stessa: un Pavimento lucidato a cera e coperto da giornali (ricordo che Fabro raccontava come nella sua terra d’origine le donne facessero così quando tiravano a lucido un pavimento). Un lavoro ai limiti dell’invisibilità, «niente da vedere, niente da nascondere» avrebbe detto il compagno di strada Alighiero Boetti. Ed è proprio il Pavimento a essere esposto alla prima mostra dell’Arte Povera curata a Genova da Germano Celant nello stesso anno.
La prima Italia a testa in giù, un’inversione rispetto al normale modo di vedere, appare nel ’68 e dello stesso anno è la sua prima scultura, Tamerlano. Nel ’71 espone alla Galleria Borgogna a Milano i Piedi, forme scultoree con sopra colonne di seta: «Di ognuna scelsi la qualità più nobile, la tecnologia più raffinata...: il marmo lucidato, il bronzo polito, il vetro colorato, la seta lavorata con le finezze della sartoria, e colori adatti al contesto». Siamo molto lontani dai materiali poveri. Così pure con opere come Lo spirato (1973), Iconografie (1975), Attaccapanni (1977). «Io propongo una lettura liberata dalle abitudini intellettuali che intervengono nel considerare i prodotti artistici» dice l’artista. Nel ’94 a Basilea Fabro dispone pali di granito come filari di un vigneto creando un Giardino all’italiana dialetticamente aperto allo spazio pubblico mentre il cielo si riflette nella terra attraverso corpi luminosi trasparenti in essa incastonati.
Un aspetto tipico dell’opera di Fabro è il tornare su alcune tipologie di lavoro, fino alla fine: quando negli anni Sessanta lavora alla serie degli Specchi, l’artista immagina la specchiatura sia sul fronte sia sul retro, affinché non esista una visione privilegiata dell’opera. Molti anni dopo, scopre che c’è la possibilità tecnica di avere una simile specchiatura: nascono così le nuove opere, attorno a cui si può girare.
Il 16 marzo 1978, in una Roma deserta e agghiacciata per il rapimento di Moro, un piccolo corteo di persone, tra cui chi scrive, aveva seguito Luciano Fabro per deporre nell’acqua della Fontana delle Api di Bernini un uovo di bronzo, cavo, dorato all’interno.

Le dimensioni sono quelle del corpo dell’artista in posizione fetale, la circonferenza corrisponde al suo abbraccio, il titolo è Io: l’artista fuori e dentro la propria opera.
LA MOSTRA
«Luciano Fabro. Didactica magna minima moralia». Museo Madre di Napoli fino al 7 gennaio. Catalogo Electa. Info: 08119313016 - www.museomadre.it.

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