Una lunga, calda estate a casa di Alda Merini

E' l'ultima grande poetessa italiana, l'abbiamo incontrata in una Milano svuotata dalle vacanze. Tra bollette da pagare, cantici da scrivere e tubi del gas: ma senza perdere l'ispirazione

Una lunga, calda estate 
a casa di Alda Merini

Metti Milano d'estate. Metti Milano calda, caldissima e Alda Merini. Lei, Alda, è distesa in un letto con un insensato copriletto invernale in una stanza piena, piena di tutto. Non c'è più spazio per nulla. Non c'è spazio nemmeno sui muri. Su una vernice stanca che ha il color della nicotina ogni centimetro è un numero. Qualcuno scritto con la penna, qualcuno scritto con il rossetto.

«Sono la mia agenda» dice la Merini. «Così non si perdono. Sono comodi, si sa dove sono. E poi alcuni li so leggere solo io... Certo, però, quando andavo in giro e dovevo chiamare qualcuno non riuscivo... Mi dicevano non ce l'hai l'agenda... E io dicevo: si ce l'ho, ma l'ho lasciata a casa...». E poi ride, una risata gutturale, allegramente stonata, una risata che si porta in groppa il peso di molte sigarette. Sì, ride Alda Merini, la poetessa triste, la poetessa della pazzia. Quella che per anni è stata premiata, esaltata, rinchiusa, osannata o dimenticata a cicli alterni.

Ride in una casa ingombra, adagiata in una casa-tana che è un microcosmo, una casa che è tutta polvere e ronzio greve di ventilatori. Poi ti guarda con degli occhi cilestrini che non sentono il peso del tempo. E il peso del tempo quegli occhi non lo sentono perché, in questa strana casa, il tempo è relativo. Fuori c'è la Ripa Ticinese alla moda, pedonale e votata all'aperitivo. Dentro, superata la corte e salite le scale, c'è un posto che oscilla tra passato e futuro ignorando il presente. Le sigarette si accendono e si spengono e anche la Merini si accende e si spegne con loro.

Ti accompagna su un percorso accidentato che ha la saggezza dell'illogicità: «Mi sento sola, sai d'estate uno vorrebbe un vicino. Si vorrei un vicino anziano che resti qua anche lui... Qualcuno con cui parlare. Sono sola». Ma in realtà il campanello suona e la vengono a trovare, due visite nello spazio di un'ora(oltre al sottoscritto...). Anzi, c'è gente che viene da lontano a visitare questa icona poetica.
Quando glielo fai notare, e glielo fa notare anche il suo amico scrittore Giuseppe Ambrosio Angelillo, lei fa finta di niente, le sfugge solo un sorriso rapidissimo: «Ma no, non la visita cretina... L'anziano... ha bisogno di un dialogo vero, di insegnare quello che sa, non di un atto di carità... Gli anziani sognano ma a chi li raccontano i sogni...». E poi viene fuori la storia di quella sua fan che voleva rapirla, portarsela a Roma «Figurati, io voglio stare qui. Voglio stare qui, da qui all'eternità, da qui alla camera da letto». Perché quando parla (e mentre parla si è spostata con tutte le sue collane in un salotto ancora più ingombro della camera) sussurra e, mentre sussurra, le parole hanno, a volte, già la forma e le assonanze di un verso. Allora, seduti su una seggiolina, è inevitabile farle la domanda banale: «Ma scrive ancora? Sta lavorando a qualcosa?». E la risposta rapida, istintiva, è: «Non scrivo più, non suono più...». A contraddirla è l'editore Giuliano Grittini (l'altro visitatore): «Ma presentiamo sabato il nuovo libro con le poesie per il Santo Padre...». E lei di nuovo si fa sorniona: «Sì, qualcosa scrivo... qualcosa... Me la chiedono... Sai in quanti. Alda mi fai una poesia, mi fai un cantico... Adulazione tanta... Compagnia poca... Ma il cantico dovrei farlo al padrone di casa e magari all'idraulico». In effetti, l'idraulico è una questione grossa. Se ne parla a lungo. Non c'è il gas in casa. Colpa di Giuseppe D'Ambrosio, secondo Alda: «L'ho chiamato l'estate di tre anni fa e gli ho detto: Giuseppe sono alla canna del gas... E lui ha chiamato i carabinieri, aveva paura facessi saltare la casa... Da allora il gas non c'è più». La seccatura si materializza soprattutto nel fatto che il gas del fornello è il modo migliore di accendere le sigarette: «Tutti questi accendini con la sicura per bambini... In realtà è la sicura anti-Merini, non riesco più ad accendere niente... In vacanza per i bambini... Gli accendini per i bambini... Tutto per i bambini... E io non posso avere nemmeno un vicino anziano che resti qui anche lui...». È inutile parlarle del comitato per il Nobel, è inutile parlarle dei premi. Li considera molto più irrilevanti della cornucopia d'argento con i confetti che qualcuno le ha inviato per un matrimonio. Accetta di avere persone accanto che la spingono a fare cose, ascrivere, accetta di essere un icona («Piaccio molto ai gay... Gente che non vuol baciarmi»),ma in realtà vorrebbe una cosa sola: infrangere un muro che solo lei, Alda, sembra vedere, un muro che la separa dagli altri. È inutile dirle che non è davvero sola: «Milano è la mia casa, ma non è davvero più quella di una volta, sembra il paese dei balocchi. Ormai mi piace solo di notte. Il duomo di notte è bellissimo, il castello Sforzesco di notte è bellissimo... Io non esco ma lo so... Di notte sogno, l'ho gia detto?». Ma cosa sogna: «Ragazzi bellissimi... Che mi baciano... Peccato che quando mi sveglio non ci sono più, mentre le bollette invece sì...Sai che il Magnificat l'ho scritto ispirata da un carpentiere... Era bellissimo, mi ha dato l'idea dell'angelo». Le chiedo se è quel Magnificat: «Sì, quello che Wojtyla teneva sul comodino, lui era grandissimo, umano, uno splendido pontefice... La sua malattia quanto mi ha fatto soffrire...Ormai penso spesso alla morte...Ma non è la morte, è la vecchiaia il problema... Non il morire, ma il morire sola come un cane».

Allora cerchiamo di mandare in frantumi un tòpos: «Ma cos'è che rende felice Alda Merini? Perché di quello che la rende triste, di manicomi e di legge Bacchelli, hanno parlato tutti...».

Mi fissa da vicinissimo, con gli occhi che diventano imperscrutabili: «Alla Merini non piace un tubo, tranne il tubo del gas e l'idraulico... e le sigarette, ma non vogliono più farmi fumare da nessuna parte... A guardarli ora anche gli anni del manicomio erano... Erano. Ecco, mi renderebbe felice rivedere le mie figlie, però non me le fanno vedere...».

Qui per la prima volta non c'è tristezza, poesia o saggezza della follia, c'è angoscia. È un attimo, ma un attimo da cui fuggire. E la Merini lo fa a modo suo: «Posso toccarla?». Mi sfiora una gamba, con mano leggera, come a controllare che il giornalista con le bretelle che le siede accanto esista davvero. «Sì, certo che può toccarmi». «Magari è un contatto taumaturgico». «Non credo». «Magari allora sono taumaturgica io». Forse questo ha più senso, perché c'è un sacco di gente che dai versi della Merini si fa stregare o guarire.
E allora proviamo l'ultima carica su questioni da pagina letteraria: «Parliamo di quando scrive...». «Io non scrivo, io detto, ho un giro di prostituti a mano che scrivono per me...». Ma versi, comitati per il Nobel, sono tutte cose che le vanno strette, che le vanno storte, che le vanno a noia, che le fanno dire: «Abbiamo già detto tutto. Io volevo solo dirle che Milano d'estate è un manicomio... Me li mandino i premi, con un milione di euro non si compra amore, attenzione... ti dimenticano anche quando ti ricordano...». Poi ha un dubbio: «Ma la pubblicate l'intervista... Non è una cosa per farmi contenta...».
«No, la pubblichiamo davvero». E allora la porta si chiude. Dentro è Merini, fuori è Milano.

Dentro il tempo non va avanti né indietro, fuori cammina una modella che incede guardando il naviglio. Dentro qualcuno vorrebbe un vicino anziano con cui parlare, fuori i bar aprono e i negozi calano saracinesche con scritto «chiuso per ferie».

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