Macché Fabio Volo Leggiamo Comisso, eretico arci italiano

In questi giorni in cui non brilla altro, nelle vetrine e nelle classifiche, che il nuovo libro di Fabio Volo, mentre si formano lunghe code per acquistarlo, consumarlo come un prodotto qualunque in un qualunque supermercato, nella mia bottega artigianale di lettore mai condizionato dalle mode mi sono imbattuto in Giovanni Comisso (1895-1969) e nel suo romanzo d’esordio, del 1925, Il porto dell’amore, appena ripubblicato come tante sue opere da Longanesi. E ad apertura di pagina sono rimasto catturato. Nel linguaggio del giovane Comisso si può dire che - come secondo lui a Fiume, la città occupata e governata da D’Annunzio con i suoi arditi - «tutto palpita e strepita alla maggiore potenza». Tutto è sensuale ma arduo, senza nessuna delle musicali sirene dannunziane. Carnale ma preciso, sino a trovare e sottolineare corrispondenze tra il tepore del sole, la «languidezza» di un giovane corpo e il cibo che lo ricrea. Il porto dell’amore, ambientato a Fiume durante una delle pagine di storia più controverse e audaci, e forse profetiche, del XX secolo, ignora completamente la storia. Ignora completamente le idee. È un libro che trabocca di figure di amici, di senso dell’amicizia virile. Giuliano, Simone, Manfredo, Enrico sono pronti a motteggiare, ad abbracciarsi, a mostrare i corpi nudi, mentre dormono, mentre si insaponano voluttuosamente le ascelle. E sono pronti a sostenere che «la bellezza deve essere ricercata dovunque», o a voler «possedere la notte» (e una voce più sobria commenta: «Buona intenzione, ma in quale modo?»). Fa una comparsa fugace la cocaina, conseguenza della regola secondo cui «qui si fa senza alcun ritegno tutto ciò che si vuole». Basso e sublime, luce e buio vivono in una vicinanza inestricabile.
Più tardi, in uno scritto pubblicato in Satire italiane (riedito da Longanesi nel 2008), Comisso traccerà un lucido bilancio di una giovinezza vissuta al massimo, che tutto ha fatto, tutto ha visto, così colma di esperienza da sembrare vecchiaia. Una giovinezza che in lui è continuata, con i viaggi e i vagabondaggi che hanno prodotto pagine straordinarie come quelle su Bologna con la sua aria che dà appetito, su Napoli dove l’aria è vellutata e scivolosa, su Roma dove si vive così mondanamente l’amicizia, su Milano, città che «sorge nella pianura come un accampamento nel deserto», dove l’amicizia è strozzata dal lavoro.
Pochi autori sono attenti come Comisso ai dettagli minimi delle cose, al passare del tempo, al senso delle stagioni, che sa cogliere mirabilmente anche nella vita di trincea nel suo libro di memorie intitolato Giorni di guerra, del 1930. Chi è dunque Giovanni Comisso? Il disertore che nel 1919 lascia le truppe italiane per unirsi ai legionari di D’Annunzio a Fiume, o il borghese che nel 1930, con le 100mila lire guadagnate inviando a un grande giornale una cinquantina di corrispondenze da Cina e Giappone compra un podere alle porte della sua Treviso? Quello che ha della natura una visione selvatica, sensuale, o quello che ne ha una concezione georgica, virgiliana, come emerge da molte pagine di La mia casa di campagna? Probabilmente Comisso è tutte e due: riesce a far convivere in sé sfrenatezza e conservatorismo, il viaggiatore compulsivo e il signore di campagna, la ricerca di avventura e la ricerca di felicità. Di fronte a Montale, che disse con un po’ di civetteria di aver vissuto al 5%, Comisso vive senza far conto di percentuali. Vuole il massimo di libertà, il massimo di piacere. Qualcuno lo dipinge come un narcisista, come un immoralista. Certo è che appare ai suoi critici e al curatore del suo Meridiano, Rolando Damiani, «estraneo alle parole d'ordine del Novecento». Pasolini ne fa un elzevirista, un prosatore d’arte, maggiore di Cardarelli e Cecchi. A me pare che in Comisso non ci sia affatto il culto della pulizia formale e dell’ordine degli autori della Ronda. La sua prosa è dissonante, sporcata da qualche voluta trasandatezza.

Il suo mondo e il suo stile sono la sua vita. Difficile chiuderlo in una definizione. A me Comisso sembra un anticonformista, un maestro di sensazioni, estraneo alla grande narrazione e al romanzesco. Eccentrico e arci-italiano, alla fine.

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