Malabarba: «Voto no e torno a fare l’operaio»

Il senatore Prc: «Per me è un gesto obbligato, su questo sono stato eletto»

Luca Telese

da Roma

Molto probabilmente sarà il suo ultimo voto. E dopo ieri, sicuramente, sarà un No. Gigi Malabarba, uno dei pochi (e per questo amatissimo) senatore-operaio, ex capogruppo di Rifondazione, è uno dei promotori del documento firmato con otto colleghi che respingono il compromesso proposto da Romano Prodi e Massimo D’Alema sull’Afghanistan. Una scelta che Malabarba definisce semplicemente: «Un bisogno di coerenza». E che per lui assume un significato simbolico, visto che - come ha già annunciato - il 20 si dimetterà per far entrare a Palazzo Madama Heidi Giuliani (madre di Carlo) prima dei non eletti dietro di lui. Un voto ancora più importante, visto che finita l’aspettativa parlamentare, Malabarba non avrà nemmeno un posto di lavoro a cui tornare: era dipendente Alfa Romeo, ma oggi, dopo la fine dello stabilimento di Arese, è finito nel limbo della mobilità. Risoluto al No, il senatore di Rifondazione rilancia una proposta a sorpresa: «Perché non facciamo le primarie sulla missione?».
Senatore Malabarba, il vostro comunicato oggi ha fatto scalpore. È l’annuncio di un «ammutinamento» o cosa?
«Un gesto obbligato. Io, come gli altri compagni, ho votato per otto volte contro quella missione, ho fatto campagna elettorale anche su questo. Che gli dico ai miei elettori? Che ho sbagliato?».
Sa cosa dicono gli altri: si deve salvare l’unità dell’Unione.
«E con che faccia potrei farlo? Dopo aver detto no-no-no, mi giustifico dicendo che per interesse di bottega ora è sì? Maddai...».
D’Alema le chiede di non far venire meno l’autosufficienza della maggioranza. Sente questa responsabilità su di sé?
«Riconosco una sua coerenza a D’Alema. Ma per me non cambia nulla, il problema è che non sono d’accordo nel merito con quel che dice».
Ha ritirato le truppe dall’Irak.
«Non capisco il senso di questa tesi: siccome ci ritiriamo dall’Irak, allora bisogna rafforzarci in Afghanistan? Il ragionamento non sta in piedi. Dovrebbero dare altre motivazioni, magari quelle vere».
E quali sono?
«Siccome gli americani si stanno concentrando su altri teatri di guerra bisogna dare loro il cambio in Afghanistan. E questo io lo ritengo ancora più sbagliato, non trova?».
D’Alema ricorda che l’Italia non può sfilarsi da questa missione perché è targata Nato.
«È un’altra assurdità. In Irak la Nato è andata in ordine sparso, non mi pare che D’Alema si sia turbato più di tanto, all’epoca».
Anche Giordano la richiama alla responsabilità di partito.
«Dal punto di vista formale noi non abbiamo limiti di mandato, su questo. Non era neanche nel programma dell’Unione!».
Perché Rifondazione si fa scavalcare a sinistra dal Pdci?
«Non lo dice nessuno ma lo sanno tutti: qualcuno crede che dobbiamo cancellare il “peccato originale” della caduta del governo Prodi. Dobbiamo fare “i buoni” e accettare le scelte degli altri».
Chi deve decidere, allora?
«Posso citare un Bertinotti di gennaio? “Facciamo decidere il popolo delle primarie”. Sono d’accordo. Spero anche lui».
E se vincessero i “riformisti”?
«Forse in quel caso potrei fare un’eccezione. Ma loro sanno che vincerebbe il no alla guerra, una volta tanto i sondaggi registrano gli umori veri. Ecco perché non posso accettare che una cosa così importante sia decisa nelle segrete stanze, senza sentire nessuno».
Non è sensibile ai richiami alla responsabilità?
«No, al contrario. Penso che se tu vuoi i voti miei, be’, qualcosa me la devi dare. Non puoi dire: o così, oppure imbarco l’Udc».
Cosa la divide da Giordano e gli altri compagni?
«Credo che anche loro abbiano le mie stesse idee. Sono onesti, per bene. Ma convinti che per sbarrare la strada alle larghe intese si debba mandare giù la minestra».
E non è così?
«Io penso il contrario: se deludiamo i nostri apriamo il campo alle ipotesi centriste. E poi Prodi deve capirlo, non può avere tutto: se vuoi l’Udc perdi me, non le pare?».
Cosa ci dovrebbe essere nel testo per farle cambiare idea?
«Basta che si parli chiaro: exit strategy. D’Alema potrebbe persino prenderci in giro, mettere la parolina e poi fregarsene».
Che fa, gli suggerisce come imbrogliarvi, adesso?
«Eh, eh, eh... Tanto so che non può permetterselo... Oggi non gli è concesso smarcarsi dall’America, e il punto è proprio questo».
Se vi dicono che siete massimalisti, negate?
«Oddìo! Guardi, sono trinariciuto, trotzkista, no global: ce le ho proprio tutte, purtroppo per loro. Però sono anche coerente».
Lei sa che i vostri otto voti potrebbero essere determinanti.
«Mi piacerebbe lasciare un segno. Anche perché, come lei sa, mi dimetterò il 20 luglio».
Non lo dica. Che magari mettono la fiducia il giorno dopo perché lei non c’è più...
«Ehhh.... Non ho sentito Heidi, ma non credo che con lei troverebbero una più malleabile».
Cosa faceva da operaio Fiat?
«Tutti i lavori immaginabili in carrozzeria: dalla lastro-foratura alla foderatura dei sedili».
Ma davvero torna all’Alfa Romeo dopo il Senato?
«Magari potessi.

Putroppo sono finito in mobilità».
A 55 anni è una tragedia?
«No, guardi: rispetto ai miei compagni, dopo quel che ho fatto, sono fortunato, il pane non mi mancherà. Ma sei sereno solo se, alla fine, puoi guardarti allo specchio».

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