Paolo Manzo
Ciudad Juárez (Messico)
Siamo a Ciudad Juárez, la città messicana separata dal sogno americano di El Paso, in Texas, appena da un ponte sul Rio Bravo - o, come lo chiamano negli Usa, il Rio Grande - e dove negli ultimi 15 anni sono state massacrate e volatilizzate nel nulla migliaia di donne, ispirando decine di libri e persino un film. Qui come nel resto del Paese del tequila i cadaveri appesi ai cavalcavia veri non come i macabri manichini degli pseudo-tifosi della Roma sono all'ordine del giorno, al pari delle teste mozzate e del sicariato, che con la pistola rappresenta il modo più spiccio per eliminare nemici che, sovente sono ex amici, perché nel mondo dei narcos non c'è accordo che duri a lungo. Pablo - lo chiamiamo così per ovvi motivi - è sposato, ha quattro figli e crede nella Vergine Maria ma non ha paura di andare all'inferno perché tanto «non può essere peggio di quanto non sia questo mondo». Di professione Pablo fa il killer, un lavoro che «rende bene, a seconda della difficoltà del lavoro, tra i 2mila ed i 15mila dollari, anche se si lamenta - da un paio di anni pagano peggio ed è diventato più pericoloso».
Benvenuti in Messico dove si stima che 150mila persone siano state ammazzate nella «guerra alla droga» iniziata nel 2006 dall'allora presidente Felipe Calderón e dove nessuno viene risparmiato. Anche grazie al «lavoro» delle migliaia di Pablo disposti ad uccidere per 2mila dollari per conto dei cartelli. «In questo Paese i bambini delle elementari, quando li incontro nelle scuole ti dicono che da grandi vogliono fare i sicari, al soldo dei narcos.
E se non facciamo qualcosa subito, la prossima generazione sarà per metà composta da killer». A lanciare l'allarme è Padre Goyo, diminutivo di Gregorio, di cognome fa López Jerónimo ed è parroco nella parrocchia San José Obrero in quel di Apatzingán, una delle città più violente dello stato di Michoacán, anche se per motivi di sicurezza lo hanno richiamato prima a Roma e poi mandato a Città del Messico, la capitale. Un «prete coraggio» che quando è ad Apatzingán celebra messa con il giubbotto anti-proiettile e va nelle scuole per convincere i bambini a non diventare sicari. Purtroppo è uno dei pochi e a guardare i numeri - oggi si stima che siano oltre 50mila i ragazzini al soldo dei narcos il rischio di una generazione composta per metà da sicari come Pablo oggi in Messico c'è tutta, anche perché i baby killer sono più facili da addestrare, meno cari e in caso di arresto le pene, quando possono essere applicate, sono meno severe che per gli adulti.
«Nessuno viene risparmiato dalla violenza in Messico» denuncia l'Iiss di Londra, acronimo che sta per Istituto internazionale di studi strategici e che l'8 maggio scorso ha presentato un rapporto secondo il quale, nel 2016, solo la Siria con le sue 50mila vittime ha pianto più morti del Paese latinoamericano, sempre più dilaniato da una guerra contro il narcotraffico che non accenna a diminuire. «23mila a voler essere precisi spiega John Chipman, il direttore dell'Iiss : questo il tragico bilancio da noi contabilizzato lo scorso anno in Messico, più di Afghanistan e Somalia messe assieme». Il governo del presidente Enrique Peña Nieto si è affrettato a negare ci sia una guerra ma i numeri e le cronache - che negli ultimi due mesi hanno visto assassinati anche quattro coraggiosi giornalisti che indagavano sui legami tra politica, cartelli e polizie locali - smentiscono la versione ufficiale.
Per spiegare l'aumento del 10% rispetto al 2015 degli omicidi in Messico e il perché lo scorso anno sia stato il più sanguinoso dal 2012 nel paese del tequila - è in atto da qualche anno quella che l'agenzia statunitense di analisi Statfor ha ribattezzato «la balcanizzazione dei cartelli», ovvero una frammentazione sempre maggiore dei gruppi criminali che si dedicano al narcotraffico. Un fenomeno aumentato dopo l'arresto e la successiva estradizione di Joaquím el Chapo Guzmán a New York, lo scorso gennaio, e che ha fatto scorrere sangue a fiumi per il controllo del traffico in città strategiche. Su tutte Ciudad Juárez ma anche Tijuana, Mexicali e Chihuahua, con da un lato (e sulla difensiva) il Cartello di Sinaloa rimasto orfano del suo líder máximo, e dall'altro l'emergente cartello Jalisco Nueva Generación.
Ma ancora più cruenta (e confusa) è la guerra per il controllo delle piazze di Monterrey e di Guadalajara, contese tra Los Zetas, il Cartello del Golfo, la Familia Michoacana, i Cavalieri Templari e le due già citate organizzazioni criminali di Sinaloa e Jalisco Nueva Generación, dove la guerra senza esclusione di colpi sarebbe appena agli inizi.
E che dire dello stato di Guerrero, dove l'orrore ha attirato l'attenzione dei media di tutto il mondo dopo la scomparsa di 43 studenti che il 26 settembre di due anni fa si stavano recando ad Iguala, una città dove sparizioni, morte e occultamento di cadaveri in fosse comuni sono purtroppo all'ordine del giorno? Gli universitari - ufficialmente ancora desaparecidos - sono stati tutti uccisi su ordine del sindaco per evitare che rovinassero con le loro proteste un comizio della di lui moglie, soprannominata la «Regina di Iguala» che gestiva la cassa dei servizi sociali del Comune ed era in lizza per prendere il posto del marito alle elezioni amministrative del 2015. La moglie del sindaco di Iguala - affiliata al cartello narcos di Guerreros Unidos, ma con contatti anche con il clan dei Beltran Leyva - avrebbe ordinato alla «sua» polizia comunale di «risolvere il problema».
Proprio come in molte altre zone
del Messico, compresa Ciudad Juárez, dove polizia, politici locali e boss della droga formano una cupola unica che, da anni, compie sequestri e massacri nella più totale impunità e nell'indifferenza del governo centrale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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