"La mia Italia anni '50 andava meglio di oggi"

Luttwak è consulente di governi e aziende e opinionista tv: "La disoccupazione è un problema, ma il vero dramma del Paese sono uno Stato inadempiente e una giustizia che funziona male"

"La mia Italia anni '50 andava meglio di oggi"

«Vede, quando parlo dell'Italia non posso essere obiettivo. Ho dei legami troppo forti. Se succede qualche cosa di male in Norvegia, non mi riguarda proprio, me ne frego. Ma se vedo che in Italia le cose non vanno, allora no, allora mi arrabbio». Edward Luttwak, 73 anni, è consulente di governi e aziende in tutto il mondo, ma i telespettatori della Penisola lo conoscono soprattutto per la sua partecipazione ai talk show tv. Si fa notare un po' per l'accento esotico, un po' per i modi franchi al limite della rudezza, due qualità apprezzatissime dai conduttori che gli affidano di solito il compito di incendiare la discussione con le sue osservazioni politicamente scorrette. «Diciamo che sono sempre pronto a esercitare la mia libertà di pensiero e di parola», commenta lui compiaciuto. «Ma il fatto è, lo ripeto, che l'Italia non mi è indifferente. Adesso vivo a Washington, e qui mi sento a casa. Ma mi sento a casa anche a Palermo, dove vado spesso e dove ho degli amici carissimi. Ci ho passato forse gli anni più belli della mia vita, mentre non sono mai riuscito a sentirmi a casa a Milano, dove ho trascorso un periodo difficile». Scusi, ma i suoi legami con l'Italia dove nascono?«A Palermo sono arrivato alla fine degli anni '40, avrò avuto sei o sette anni, in città ho fatto quasi tutte le elementari. Poi a Milano ho fatto la Quinta, ma è stato un disastro».E in Sicilia come ci era finito?«È una storia lunga. La mia famiglia viveva nel Banato, una regione nel nord ovest della Romania. Era un miscuglio di genti, lingue e religioni: c'erano romeni, tedeschi, ungheresi, serbi. Di tutto un po': cattolici, protestanti ed ebrei. Era una società talmente multinazionale che riuscì a sfidare le regole dell'Europa della seconda guerra mondiale. I capi delle diverse comunità si misero d'accordo per rispettarsi ed evitare ogni persecuzione. Anzi, Arad, la città in cui sono nato, è l'unico posto dove gli ebrei sono addirittura aumentati: nel 1939 erano 9mila, nel '45 erano diventati 14mila».E in quel miscuglio lei che lingua parlava?«Con i genitori parlavamo in francese, ma allora la lingua letteraria di una famiglia della buona borghesia era il tedesco. I libri e le riviste che trovavamo nella nostra biblioteca arrivavano da Vienna e da Berlino. Poi naturalmente c'erano il romeno e l'ungherese. E per noi l'ebraico. La mia famiglia non è mai stata particolarmente praticante, andavamo in sinagoga nelle feste più importanti. Ma i miei genitori hanno sempre cercato di trasmetterci la tradizione familiare. Quando ci siamo trasferiti a Palermo, dove non c'era traccia di insegnanti di ebraico, era personalmente papà a farci lezione».Dopo i nazisti, però, in Romania è arrivata l'Armata rossa. «Sì, mio padre era un commerciante ed era sempre sul chi vive. Ma per un po' se l'è cavata, anche perché a Bucarest nei primi tempi c'era ancora il re. Poi, nel novembre del 1947, ha saputo che i comunisti erano pronti a prendere il potere con un colpo di Stato. Ha trovato una nave da crociera, forse l'unica di tutta la Romania, che era in partenza. In fretta e furia ci siamo imbarcati. Di lì a una settimana le frontiere sono rimaste chiuse e sono rimaste chiuse per 40 anni. Pensi se avessimo tardato...».E quindi l'Italia...«In quel periodo era impossibile sbarcare in Palestina, era proibito dagli occupanti britannici. Per questo siamo arrivati a Napoli. Stavamo all'Hotel Santa Lucia, in pieno centro. Poi mio padre ha deciso di trasferire la famiglia a Palermo».Come mai?«Lo so, per un italiano di adesso sembra incomprensibile. Ma allora Palermo era una città splendida. Elegante, con una vita culturale ricca, un teatro dell'Opera importante, musicisti come il violinista Yehudi Menuhin che erano di casa. L'aristocrazia era internazionale e cosmopolita, i miei andavano a cena da Tomasi di Lampedusa. In più era la città più vivibile d'Europa: allora a Londra c'era ancora il razionamento di guerra, Milano era tutta bombardata». Come vi siete trovati?«Come in una specie di paradiso. Mio padre si è messo a esportare arance e ha fatto dei bei soldi. Io mi godevo Mondello nelle lunghe estati siciliane. Ma tutto è finito quando a mio papà è venuta la morbosa passione dell'industria».E cioè?«Era un uomo molto attento alle nuove tecnologie. Decise di puntare sulle materie plastiche, che stavano nascendo allora, e pensò che il posto in cui poteva aver successo era Milano. Così ci trasferimmo. La città era in pieno boom. Non riuscì a trovare nemmeno un magazzino per i suoi macchinari. Dovette costruirlo, in via Garian, in zona Washington. E le cose gli andarono bene, dopo il primo stabilimento ne costruì un altro vicino all'imbocco dell'Autostrada per Torino, poi un altro ancora a Brescello». E lei?«A me le cose andarono malissimo. Fui bocciato due volte di fila in Quinta con zero in condotta. Avevo perso i miei amici e facevo a botte con gli altri bambini che mi prendevano in giro perché arrivavo dalla Sicilia. E i miei genitori finirono per mandarmi all'estero, in un collegio vicino a Oxford. Lì però non ebbi problemi: non parlavo una parola d'inglese, ma la cosa è evidentemente meno grave che parlare con accento palermitano a Milano. Poi i bimbi con cui mi picchiavo non andavano a frignare dalla maestra come succedeva da voi. Da lì in poi ho sempre studiato in Gran Bretagna».E i suoi rapporti con l'Italia?«A Milano avevo la famiglia: mio padre morì nel 1968, a 58 anni. È sepolto ancora lì. Dopo qualche anno mia madre si trasferì in Israele e anche i miei tre fratelli si sono dispersi per il mondo».

In Israele ha abitato anche lei...«Sì, mentre ero ancora in Inghilterra avevo ricevuto un'educazione militare in quella che chiamavano Territorial Army. Così nel 1967, appena prima della Guerra dei Sette giorni, mi sono arruolato volontario nell'esercito israeliano. Mentre Moshe Dayan entrava a Gerusalemme, io ero sul fronte della Galilea, nella zona del Golan. Poi ho iniziato la mia carriera professionale».E tra l'Italia di oggi e quella di quando era bambino che differenze vede?«L'Italia degli anni '50 era un Paese di una povertà brutale, ma dove tutti lavoravano e tutti volevano migliorare la propria posizione. Oggi, quando vedo le cifre della disoccupazione giovanile e vedo quanti extracomunitari ci sono in giro a fare i lavori che nessun italiano vuole più fare, penso che c'è qualche cosa che non funziona. Anche se poi in Italia il vero problema è un altro». Vale a dire? «C'è un deficit di libertà personale. Vedo tanta gente normale che vorrebbe fare cose normali ma è minacciata da uno Stato inadempiente, che non fa quello che dovrebbe, e che è pure invadente, pericoloso per i cittadini, con le Procure e i giudici che appartengono allo stesso ufficio e possono mettere in galera i cittadini senza prove. Ti fanno un bel processo e poi dopo dieci anni ti dicono che non sarebbe nemmeno dovuto iniziare. Guardi che cosa è successo al mio amico Calogero Mannino».A cosa si riferisce? «Parlo di tutte le balle che gli hanno tirato addosso con l'inchiesta sui rapporti Stato-mafia. È stato semplicemente perseguitato. Poi i giudici lo assolvono e il procuratore dice che gli farà un nuovo processo senza nemmeno aspettare le motivazioni della sentenza. E non mi risulta che il Csm sia intervenuto. Il cittadino in Italia è senza protezione».A proposito di Mannino. Il Guardian ha parlato di un incarico che lei ha svolto per il Sismi, per identificare possibili terroristi in arrivo, e dice che lei è stato assoldato da Pollari e si è fatto affiancare proprio da Mannino.«Il Guardian fa un pasticcio di cose vere e cose che non c'entrano niente. Il mio mestiere è quello di fare il consulente per i governi. Certo, ho lavorato per il governo italiano e ho lavorato per il Sismi. Ma non c'entrano Pollari o Mannino». Sempre il Guardian parla del suo ultimo hobby: una fattoria grande come un regione che ha comprato in Bolivia. «Sì, al confine con il Brasile. C'è un po' di giungla e un po' di prateria. A volte guadagniamo qualche soldo, a volte ne perdiamo.

L'obiettivo era di preservare anche ecologicamente l'area e quello ci sta riuscendo. Pensi che sono seimila ettari e abbiamo tremila mucche. La media è di una mucca ogni 2 ettari. In Italia una normale azienda agricola avrà cento mucche su due ettari. Mica male come differenza, no?».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica