Due coppie di pali, alti fino al cielo, lì dove di solito ci sono le porte di Dida e Julio Cesar. Alle 12,30 di oggi i cancelli di San Siro si apriranno su un Meazza come non si era mai visto. E non solo per quei due pali che fanno solletico alle nuvole. Ma perché sugli spalti ci saranno ottantamila persone senza barriere, poliziotti, steward. E in campo ci saranno trenta giganti che rispettano lavversario perché rispettano se stessi. Un calciatore a volte fa finta di essersi fatto male. Un rugbista fa finta di non essersi fatto niente.
San Siro trasformato in campo da rugby io lho visto alle cinque di ieri pomeriggio. La settimana più ovale della storia di Milano è già alla fine, volata via in un soffio. Lunedì scorso gli All Blacks sono sbarcati a Milano, e per una settimana in città non si è parlato daltro. Gli All Blacks incontrano i ragazzi delle scuole. Gli All Blacks baciano il sindaco. Gli All Blacks vanno a vedere il Cenacolo in ciabatte. Gli All Blacks che oggi ci sconfiggeranno. E che, subito dopo, incredibilmente, si faranno portare il sushi in spogliatoio. Poi andranno a fare il terzo tempo con gli azzurri in un albergo dipinto tutto di nero. E alle 15,50 di domani voleranno via, verso unaltra haka, e qualcuno penserà di averli solo sognati.
Ma gli All Blacks ci sono davvero. Lo raccontano quei pali al posto delle porte. E i cento ragazzini che alle cinque di ieri entrano sul prato di San Siro per le prove generali. Sono i ragazzi delle squadre di Milano - il Chicken, lAsr, il Cus, la Unione - che oggi faranno i raccattapalle e i portabandiera. Quelli della under 10, addirittura, giocheranno prima di Italia-Nuova Zelanda davanti a una folla mai vista. Roba da brividi. Ma hanno la serena incoscienza degli otto anni, e ieri entrano sul prato dellimmenso stadio deserto come se fosse la cosa più naturale del mondo.
A restare mezzi imbambolati, con gli occhi fissi sullo spettacolo surreale, sono i papà e le mamme. Genitori di una specie un po particolare, i genitori-da-rugby. Molti di loro non hanno toccato una palla ovale in tutta la loro vita. Ma seguendo percorsi disparati - e a volte misteriosi - hanno portato i figli a giocare a rugby. E adesso sono i più irriducibili. Racconta Alessandra Galluzzi, mamma di Mattia che oggi giocherà a San Siro: «È sport allo stato puro, cè solo la parte sana, allegra, bella. Certo, non è una passeggiata tra i boschi, cè la competizione, lagonismo, il contatto fisico, ma è proprio quello che serve ai ragazzi: imparare a misurarsi con le difficoltà. E l'entusiasmo che ci mettono è la soddisfazione migliore. Mattia prima giocava a pallone, non lho mai visto soffrire per un gol sbagliato. Invece adesso se sbaglia una meta ci soffre fino a sera. Per non parlare dellambiente, dei rapporti che si creano tra i ragazzi e tra i genitori. È un mondo che non conoscevo e che mi ha conquistato». E che ha conquistato persino Alice, la sorellina di Mattia, che ha appena fato i sei anni e che gioca anche lei come una furia: «Anche se le altre mamme quando mi dicono che porto la bambina a rugby mi guardano come se fossi matta».
È questo lo spirito del rugby, quello che in Nuova Zelanda permea la vita di ogni giorno (persino troppo, secondo alcuni) e che qui è ancora vangelo apocrifo.
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