Dopo il blitz e la cattura il paese vuol dimenticare

Dopo il blitz e la cattura il paese vuol dimenticare

Un'evasione «fai da te». Studiata e programmata in famiglia ma senza lo spessore criminale della «famiglia». I Cutrì, infatti, sono calabresi ma non appartengono a una cosca, a un 'ndrina. A Inveruno, dove abitano e dove, in via Villoresi, - a poco più di dieci minuti dalla casa di mamma Antonella - Domenico «Mimmo» Cutrì aveva il suo covo da evaso, li conoscono tutti. «Gente come tant'altra - spiega Cinzia, una 26enne di Inveruno che abbiamo incontrato proprio ieri mattina a due passi dal covo di via Villoresi -. Ci siamo viste più volte la sorella Laura a ballare: una ragazza dall'apparenza normalissima. Mai avrei immaginato che qualcuno di loro sarebbe stato capace di mettere in piedi addirittura un'evasione».
E infatti l'evasione, con un bilancio di nove arresti e un morto, è stata un fiasco completo. Coronato da una serie di errori tattici che nemmeno una banda di ragazzini avrebbe mai fatto: dalla scelta delle auto da utilizzare per la fuga e per muoversi dalla Lombardia al covo di Cellio, nel Vercellese, fino alla gestione dei telefoni, ma persino nelle dichiarazioni. «Mio figlio minore, Daniele è a Napoli» aveva spiattellato mamma Antonella ai carabinieri, pregando il suo Mimmo di non farsi catturare «in memoria» del fratello Nino, morto per liberarlo. In realtà Daniele, dopo l'evasione fallita, era già a Inveruno, solo il suo telefonino era arrivato all'aeroporto partenopeo di Capodichino, nelle mani di Aristotele Buhne, 31 anni, l'imprenditore inseguito dai debiti che - sempre in nome dell'amicizia che lo lega ai Cutrì - aveva partecipato all'assalto in tribunale. Storia fotocopia la sua, di quella di un altro complice del commando, altro piccolo imprenditore, Franco Cafà, 35 anni, arrestato sabato dai carabinieri a Buscate per favoreggiamento dopo che i militari erano risaliti a lui come al proprietario del covo, un appartamento in una villetta su due piani in ristrutturazione, in via Villoresi.
«Siamo sconcertati - spiega Edo, 67 anni -. Ho sentito un forte rumore, nel pieno della notte, poi mi sono affacciato alla finestra e ho visto i carabinieri che facevano irruzione. Ho avuto molta paura. E poi, sapere che in questa storia c'è implicata tutta gente della zona, gente per tanti aspetti insospettabile, beh, fa un certo effetto non crede? Forse è il caso di mettere la parola fine a tutta questa storia...Inveruno è sempre stato un posto tranquillo».
Anche il padre dell'evaso, seppure per altri ragioni, vorrebbe vedere calare il sipario sulla vicenda. «Non abbiamo niente da dire, lasciateci in pace» ha dichiarato ieri dopo che il procuratore di Busto Arsizio, Gianluigi Fontana, aveva invitato i familiari a collaborare con la giustizia sostenendo, davanti alle telecamere: «un figlio morto e due in carcere bastano».
I veri eroi di tutta questa vicenda sono però sicuramente gli investigatori, i carabinieri del nucleo investigativo di Varese, quelli del Ros e quelli del Gis, coadiuvati dai colleghi milanesi. Il Gis ci ha messo appena 8 secondi per fare irruzione nel covo di via Villoresi e immobilizzare Cutrì.

Per entrare nella villetta con le inferriate verdi la squadra del Gis ha esploso delle «flashbang», le granate assordenti e accecanti in dotazione a diversi corpi speciali, che hanno disorientato Cutrì e il complice che era con lui, il 35enne Luca Greco, impedendo loro di capire costa stesse accadendo: il lampo luminoso rende infatti la visione impossibile per circa cinque secondi, fino a che il cervello non riporta la retina al suo stato originale.

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