E con gli "stilisti democratici" si tratta

Il conflitto esploso in questi giorni fra D&G e l'amministrazione comunale di Milano non deve destare meraviglia. C'è, semmai, da stupirsi che lo scontro non sia avvenuto prima. Con la sua consolidata attitudine alla gaffe (ammesso che di uscita involontaria si tratti) ci ha pensato l'assessore al Commercio Franco D'Alfonso, con quella sua dichiarazione - che i più benevoli hanno definito «malaccorta», «incauta» e «improvvida» - a proposito della presunta evasione fiscale dei due grandi stilisti. Una colpa che li escluderebbe dalle generose elargizioni di spazi che, secondo D'Alfonso, il Comune farebbe in occasione delle settimane milanesi della moda ma che per il momento D&G non avevano neppure chiesto. Per D'Alfonso, infatti, quei due sono due pregiudicati, anche se il giudizio è ancora solo al primo grado, in barba alle più elementari norme di garantismo che pure un ex socialista come D'Alfonso dovrebbe rispettare.

No, non c'è da meravigliarsi per questa fucilata a freddo, né per il tiepido, bipartisan e acrobatico tentativo del sindaco di minimizzare e di prendere cautamente le distanze dal suo assessore. Tentativo, anche questo «malaccorto», tanto che ha ottenuto il risultato di irritare ancora di più i due stilisti spingendoli alla clamorosa inedita serrata di tre giorni di tutti i punti di vendita milanesi della griffe: una mossa esplosiva che è sui giornali di tutto il modo, che a Milano e al suo sindaco non fa fare una bella figura. Non c'è da meravigliarsi, dicevo, perché questa è una giunta di sinistra, molto di sinistra: l'ex rifondarolo e oggi vendoliano Pisapia è il sindaco e D'Alfonso il suo profeta, il suo riconosciuto ideologo. Perciò legittimato interprete di quell'area politico-culturale. E si sa: quella sinistra ha sempre detestato la moda. Da un certo momento in poi, faticosamente a partire dagli anni '80 (gli anni della «Milano da bere» non caso anch'essi schifati dalla sinistra) ha dovuto prendere atto dei fatturati stratosferici, dell'export strepitoso, dei livelli di occupazione da boom industriale e del grande contributo di immagine che il sistema moda portava al paese.

La sinistra faceva buon viso, sorrideva forzatamente agli stilisti ma dentro di sé continuava a detestare quel mondo, visto come regno della superficialità e dell'apparire del consumismo e dello shopping selvaggio; non riconoscendo alcun legame fra tanta creatività e l'arte e la cultura ufficiali, ignorando che pur sempre di ricerca del bello si tratta. «Chi butteresti giù dalla torre, Valentino o Fabio Fazio (per non scomodare Umberto Eco)?». La maggior parte di questi integralisti di sinistra non avrebbe dubbi: giù Valentino! Certo, qualche «stilista democratico» si salva e con lui si può serenamente trattare, ad esempio, per grandi spazi in Galleria, tanto più dopo averli sottratti all'odiato McDonalds, simbolo estremo del consumismo colonialista amerikano.

Ma sono casi rari, perché se il diavolo veste Prada, D&G veste il Diavolo, nel senso del Milan, squadra di Berlusconi: e così due linee di repulsione - quella per la moda e quella per il Caimano del quale i due stilisti sono amici - si incrociano provocando reazioni incontrollate, di cui D'Alfonso ci ha appena dato un piccolo e rumoroso saggio dimostrando per l'ennesima volta i danni che può provocare il pregiudizio ideologico.

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