Viaggio all'inferno e ritorno. Ovvero, nel suo caso, dall'ergastolo al teatro, fino al festival di Cannes e di nuovo sul palco diretto dal suo mentore, il regista Armando Punzo. Oggi Aniello Arena, «divo per caso» dopo il successo internazionale in «Reality» di Matteo Garrone, va in scena a Milano al teatro Tieffe Menotti con la storica compagnia della Fortezza nata 25 anni fa nel carcere di Volterra. Sul palco, in uno spettacolo di quasi 50 attori tra detenuti e non, è il protagonista di «Mercuzio non vuole morire», paradossale rivisitazione del dramma shakespeariano di Romeo e Giulietta.
Un titolo che ricorda il «Cesare deve morire» dei fratelli Taviani vincitore dell'Orso d'oro. Anche in quel caso con una compagnia di detenuti, stavolta di Rebibbia. Casuale?
«Non saprei, perchè il titolo di questo spettacolo, che è in lavorazione da tre anni (dunque precedente al film dei Taviani), cade a pennello con lo stile del regista Punzo, abituato a rivoluzionare i classici. L'ha già fatto con Amleto, Macbeth e l'Orlando furioso».
Nell'opera originale Mercuzio, confidente di Romeo, incarna un ideale di spirito libero e fa una brutta fine. Nel vostro spettacolo invece?
«Si ribella e non vuol morire. Come scrive il regista, dice a tutti quanto è importante la sua entità, la sua forma spirituale. Mercuzio impersonifica la poesia, l'arte che sono sinonimo di vita e non di morte».
Lei ne sa qualcosa. A vent'anni finì in carcere per delitti di camorra e il teatro l'ha resuscitata, come descrive nella sua biografia appena pubblicata.
«Già, e spero che tutto questo possa servire da esempio per tanti ragazzi cresciuti in strada nei vicoli del sud e che hanno come modello di vita il camorrista elegante con tanti soldi, belle macchine e belle donne».
Quando ha capito di avere il talento da attore?
«Bella domanda. Diciamo che dopo l'inferno di Poggioreale, il 26 novembre del '99 ho avuto la fortuna di essere trasferito nel penitenziario di Volterra, dove da anni il regista Punzo dirigeva la Compagnia della Fortezza. All'inizio ero molto restìo perchè non avevo alcuna idea di cosa volesse dire recitare. Da napoletano mi venivano in mente le vecchie commedie dialettali...».
E poi?
«Poi grazie alle insistenze di Punzo mi sono sbloccato e sono andato in scena nell'Opera da tre soldi di Brecht. Per me ha cominciato ad aprirsi un mondo».
Nel senso che capiva cosa stava facendo?
«È difficile da spiegare, ma la cultura e l'arte mi hanno fatto confrontare con la profondità dell'essere umano, con gli altri, ma soprattutto con me stesso. Studiare i grandi autori, i loro testi e i personaggi ti apre la mente. Mi sono guardato allo specchio e ho detto: ma dove hai vissuto fino a adesso?»
Poi con Garrone, è arrivato il trionfo cinematografico a Cannes. Si sarebbe mai immaginato di diventare una star?
«Certo che no. Matteo mi voleva anche come protagonista in Gomorra ma allora non godevo ancora dei benefìci di legge. Il successo mi ha fatto piacere ma sono rimasto coi piedi per terra anche perchè la sera, dopo gli spettacoli o le prove, torno in carcere come gli altri.
Ma?
«Sono contento non soltanto per me stesso ma per tutta la popolazione carceraria, perchè oggi i detenuti sanno che se ce l'ha fatta Aniello vuol dire che ce la può fare chiunque...».
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