Cerca in qualche modo di ritrattare le sue confessioni, inventandosi un passato da confidente della polizia. Ieri, in Corte d'Assise, Nadir Benchorfi - l'estremista marocchino accusato di terrorismo internazionale e del progetto di un attentato nel centro commerciale di Arese - sembra animato da un unico, legittimo obiettivo: schivare la condanna, nonostante la massa di prove raccolte su di lui dalla Digos. «Non sono un terrorista», dice Benchorfi, in videoconferenza dal carcere di Sassari, alla Corte presieduta da Giovanna Ichino. Ma le carte dell'indagine dicono l'esatto contrario.
A partire dalle ammissioni che lui stesso aveva fatto dopo l'arresto, parlando dei suoi rapporti con Massian, il suo contatto all'interno dello Stato islamico. In un interrogatorio aveva confermato di avere effettuato un sopralluogo nel centro e di avere realizzato un video mandato a Massian in Siria: «Lui mi ha detto che si poteva fare un buon acquisto, intendendo che si poteva fare un bell'attentato».
Frasi che sembrano inequivocabili. Ma ieri Benchorfi fa retromarcia: «Non ho mai avuto intenzione di fare una cosa del genere». Ma lei, chiede il giudice Ichino, queste cose le ha dichiarate? «Mi hanno messo pressione, mi hanno minacciato, e quindi ho fatto quello che mi hanno detto di dire», dice. E aggiunge: «Ero un informatore della polizia». L'operazione è chiara: rifarsi una verginità da confidente, che possa spiegare tutti i suoi contatti con ambienti jihadisti come una sorta di doppio gioco: non voleva fare attentati ma carpire informazioni da passare alla Digos. «Ho chiesto a Massian se poteva darmi almeno due persone per fare questo attentato, per sapere se lui ha dei contatti qua in Italia». E rivendica di avere fatto arrestare anche il proprio padre».
Vero o non vero? Che il marocchino fosse personaggio noto alle forze dell'ordine, e che in qualche modo abbia loro passato notizie, pare assodato. Sono contatti che risalgono al periodo in cui Benchorfi torna in Italia dalla Germania, dove si è convertito all'Islam radicale e ha allacciato una rete di contatti.
In quel periodo Benchorfi entra nel mirino della Digos, viene interrogato, e a quel punto fornisce una serie di notizie sulla cellula estremista attiva a Dinslaken, la città tedesca dove aveva soggiornato. Ma delle sue attività in Italia non racconta assolutamente niente: nè dell'attività di raccolta fondi che effettua a favore della jihad, né tantomeno dei contatti con Massian, il suo referente nelle terre del Califfo.
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