Il suo rapporto con Milano che vuole diventare capitale del food?
«Mi riguarda da vicino. Quando ero assessore nella giunta Moratti ero attivo per l'Expo e protagonista della vittoria di Milano. Poi fui cacciato, dovevano chiamare chi non deve mai mancare, lasciandomi fuori perché avrei fatto ombra. A Expo ho intrecciato il mio destino con quello di Farinetti con una mostra splendida, ho dislocato il patrimonio del buono e del genuino, delocalizzando la storia dell'arte. Un'intuizione che ebbe Alberto Longhi negli anni Trenta: al piano terra i prodotti tipici e al piano superiore l'arte dei diversi territori. L'abbiamo portata a Trieste a Eataly dal 26 aprile. Lo schema espositivo piacque a Carlin Petrini che vi portava i suoi seguaci dicendo Ecco, Sgarbi ha fatto quello che anche noi cerchiamo».
Un nesso concreto tra arte e cibo?
«Lo sviluppo edonistico dell'Italia potrebbe essere gastronomia e bellezza. Sessant'anni fa il profeta fu Mario Soldati con Viaggio nella valle del Po, era storico dell'arte e così avanti che capì il nesso. Come la fusione tra mondo dell'arte e bellezza regionale, di Roberto Longhi, estesa poi al mondo gastronomico. Negli anni trenta viaggia in Padanìa, una grande città artistica che unisce Bologna Ferrara e Parma, il suo allievo era Pasolini che scopriva la ricchezza dei Lidi Ferraresi. Il primo a capire la caratteristica e l'originalità della risposta».
E gli chef?
«Da sindaco di Salemi inventai l'assessorato alla Cultura e Agricoltura summa tra i due mondi. E nominai Fulvio Pierangelini assessore alle Mani in pasta. Poi Gualtiero Marchesi che chiamo senatore, Gianfranco Vissani. Rifiuto lo stravolgimento di oggi con Bottura più citato di Umberto Eco».
Il suo rapporto con il cibo?
«Di antagonismo, mangio una sola volta al giorno, di solito di notte, e tendo a mangiare le stesse cose. La maggior soddisfazione sono gli spaghetti. Quelli del Pastificio Masciarelli di Pratola Peligna. Li ho mangiati a Montelupone con i carciofi, una specialità della Taverna degli artisti, gestita da un cuoco comunista».
Il sapore dell'infanzia?
«Eravamo una micro società. I miei mi portavano con loro dal dottor Baia, un amico, prima del pranzo mangiavo con voluttà la panna montata. Terminata quella me ne tornavo a casa. Non amavo il brodo, fino a che una zia mi riempì la ciotola di parmigiano e così cominciai a mangiarlo. Più grande, ricordo grandi pranzi con un senatore a Ravello, comunista sofisticato, traduceva Racine e cucinava spaghetti alla carbonara con due diverse cotture».
Ai fornelli o a tavola?
«La mia è una visione ottocentesca della società, dove le donne si occupano di cucina, figli e casa. Quando vedi un uomo ai fornelli o cambiare pannolini è insopportabile, vogliono quote di maternità. Un tempo dominavano le cuoche, oggi siamo passati al dominio maschile, una società in declino irreversibile. Io non ho mai cucinato neanche un uovo».
Il pranzo o la cena che non dimenticherà mai?
«Molti ricevimenti di qualche testa coronata. Un pranzo si ricorda per un luogo, come Villa Fogazzaro, casa del marchese Boso Roi, avevo 25 anni, appena entrato in Sovrintendenza, scoprii il souffleè, io che ero abituato alle tagliatelle emiliane. Non c'è una prima o ultima cena, non è mai solo il cibo a lasciare un ricordo».
Il vino cosa stimola in lei?
«Il capitolo che mi interessa di più. Bevo acqua minerale gassata e tenderei ad essere astemio. Ma sono Sgarbi, visto come uomo spericolato, pur essendo moderno non fumo, non mi drogo e sono un convinto eterosessuale».
Il suo vino?
«Sono preso di piacere da un solo vino: il Lambrusco. Mio padre aveva il culto dei vini, la sacralità del Barolo. Il vino come liturgia, ho cercato di desacralizzarlo. Ho scoperto il Lambrusco, la sua schiuma, un vino che puoi bere gelido, barbarie che altri vini non accettano. Vorrei fare il testimonial del Lambrusco, ha sapori straordinari di frutto, di ciliegia, mi da soddisfazione erotica, euforia, festa carnevalesca, un piacere autentico».
Menù tradizionale o innovativo?
«La classicità di Romano Tamani dell'Ambasciata a Quistello, una scenografia da opera lirica. Un piatto deve essere semplice, non sopporto chi cucina schiume di mortadella o modifica la forma delle forchette, sono imbecilli. A Brescello con una tazza di Lambrusco, quella è voluttà».
La regione e la città sinonimo di buona cucina?
«A Salemi, il pane di San Giuseppe, architetture effimere, sculture di pane come stanze per una cena con elementi decorativi. Le ho portate in giro per il mondo e alla Biennale di Venezia. Un tentativo di sollevare la Sicilia, ribaltando l'ipocrisia dell'antimafia. Il meridione è come nel dipinto di Carlo Levi conservato a Matera dove i poveri restano poveri e i vecchi, vecchi. Io ho trattato il Sud come il Nord guardando in verticale e non in orizzontale. Eliminato il paternalismo per educare chi è li a farsi del bene».
Il suo luogo del cuore?
«I luoghi da cui si parte che sono poi quelli dove si torna, come Santo Stefano di Sessanio. Un borgo recuperato è un miracolo di Dio, un restauro che sente la presenza del passato. E poi Linosa, Rocca Calascio, Monte Sant'Angelo, Sant'Agata dei Goti, Asolo e Asola».
La cena romantica è un'arma
vincente?«Credo di sì, ma avendo molte tecniche non ho problemi. Mi ricordo però di quando a San Severino una famosa attrice rifiutò di cenare con me e il mio fidato autista, un atteggiamento altezzoso, la riaccompagnai a casa».
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