L'ultimo dei campioni del dopoguerra, Fiorenzo Magni, era dei nostri. Era di Monza, dove è mancato ieri mattina a quasi 92 anni. Era lombardo perché era anche un po' di Magreglio (Co) dove - accanto al Santuario della Madonnina che protegge i ciclisti sorge il «suo» Museo. Magni era lombardo acquisito a tutti gli effetti, amico di tanti sindaci della Brianza che a ripetizione «sapeva incastrare» anche solo per avere una tappa del Giro. Era natio di Vaiano (Prato, 7 dicembre 1920) ma del toscanaccio aveva solo qualche espressione. Diceva babbo per dire papà. Che tu mi combini per cosa mi combini. E usava tutte le vocali come andavano usate. Aveva anche il «carattere» forte del toscanaccio. Ma quel ragazzone presto andò in fuga dalla sua Toscana per cercare nell'ordine: di mangiare (prima), i successi (durante e contro «quei due» Coppi e Bartali), la gloria e anche la sicurezza economica (dopo) per una vita bella, da signori, con la sua meravigliosa famiglia. «Ho dovuto pedalare e sudare, impegnarmi senza sprecare per permettermi di acquistare questo terreno», raccontava ammirando dalla finestrona del salotto, Villa Magni, a Monticello Brianza. Per fare questo Magni, il campione fra i campioni si aggiudicò tre Giri d'Italia ('48, '51 e '55) e tre Giri delle Fiandre (dal 1949 al 1951). E divenne il «Leone». Era anche un po' belga, Fiorenzo, per aver spodestato i fiamminghi a casa loro: i Kubler, i Koblet e i Van Steenbergen ad esempio. Califfi.
Magni si sentiva dei nostri, per come si era realizzato nella vita e nel lavoro. Prima di tutto, la famiglia e la sua professione di fede: con la moglie Liliana e i suoi sette nipoti, fra questi, Davide, il più «piccolo», forse il prediletto, che lo seguiva ad ogni passo. Poi le sue Concessionarie d'auto. Aveva iniziato presto a commerciare, a Milano e hinterland, pezzi di ricambio: prima di moto, poi d'auto. Quindi l'autorimessa di Seregno. Fino a dirigerne due e poi tre di saloni con Monza e Carate. E diventare fino a poco fa il presidente di Opel Italia. Era un lavoratore incallito e così aveva realizzato la sua «opera prima»: il Museo del Ghisallo, inaugurato in pompa magna sei anni fa. Un progetto realizzato in fretta: faceva lunghi elenchi di persone in vista e li metteva tutti in fila a tirare. Lui era quello che dava più cambi. Una grande parte del finanziamento la ottenne dalla Regione Lombardia. Aveva fatto innamorare soprattutto il governatore Formigoni. E poi Coni, Cio, Rai, Gazzetta dello Sport, Colnago, Mapei, persino la Gewiss. Architetti, giornalisti, amici, collezionisti e volontari. E bici tante bici. E cimeli, un numero imprecisato di cimeli per raccogliere la storia del ciclismo che grazie a lui ora è lì, sul Ghisallo. Un'opera d'arte, costruita partendo da Milano. Quando veniva «in città» ricordava le sue chiacchierate in San Camillo, con il patron del Giro, Vincenzo Torriani e gli abbracci con i direttori della Gazzetta, in via Solferino. Su tutti stimava Raschi. Ma era affezionatissimo a Cannavo'.
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