Non una parola sul commissariamento della Lombardia, niente mozioni di sfiducia o attacchi alla giunta regionale. Con un «convegnone» ospitato a Palazzo Pirelli, «il primo grande appuntamento che parla del futuro», il Pd ieri ha provato a mostrare il suo volto moderato e propositivo. Nessuno spazio, quindi, per la linea oltranzista di Pierfrancesco Majorino e compagni (post-comunisti), nessun cenno alle maldestre, e improbabili, iniziative di Pietro Bussolati. L'eurodeputato e il consigliere regionale milanese, protagonisti della fase più battagliera e inconcludente dell'attacco al Pirellone, hanno lasciato spazio ai vertici regionali e nazionali, intenti a delineare questa fantomatica «altra sanità» che ci consentirebbe di «vivere sicuri». Credibilità? Scarsa o scarsissima. La prima fase della discussione, dedicato al cambiamento del sistema sanitario, ha avuto come momento centrale l'intervento di Beatrice Lorenzin, che è stata ministro della Salute per quasi 5 anni, periodo nel corso del quale i tagli al sistema sanitario sono stati «senza precedenti». «Nonostante la sua determinazione - ha scritto la Fondazione Gimbe nel 2017 - i numeri documentano senza appello che per la sanità pubblica il lustro 2013-2017 è trascorso sotto il segno di un definanziamento senza precedenti». È stato quindi il turno di un nervoso Beppe Sala. Il sindaco di Milano, che pure ha avuto mesi difficili, contrassegnati da incertezze e gaffe, anche ieri si è mostrato piuttosto spazientito dal gran discutere in casa Pd: «Spero che sia l'ultimo incontro - ha detto in pratica - se siamo in grado di formulare la nostra proposta bene, altrimenti è un problema nostro, è colpa nostra». Ha quindi fissato anche un termine per questa proposta: luglio, maltrattando il povero capogruppo regionale in commissione Sanità, Claudio Girelli, che aveva evocato il solito percorso di ascolto e costruzione di una proposta.
Introdotto dalla senatrice Emilia De Biasi - presidente della commissione Sanità del Senato nello stesso periodo - è quindi intervenuto Nicola Zingaretti, che da segretario del Pd, e da governatore della Regione Lazio, era probabilmente uno dei meno indicati a dare lezioni. Eppure, per quanto poco credibile, Zingaretti ci ha provato. Ha parlato di politici, (ovviamente di destra) che vanno in giro senza mascherine, ha liquidato con le solite frasi fatte il britannico Boris Johnson, lo statunitense Donald Trump e il brasiliano Jair Bolsonaro. Ha rivendicato il fatto che l'Italia sia stata la prima democrazia del mondo occidentale a chiudere, dimenticando che lui a fine febbraio, pochi giorni dopo la scoperta del primo focolaio, quello lodigiano, era uno dei fautori del «ritorno alla normalità», e partecipava entusiasta ad aperitivi e cene milanesi, rispondendo all'appello dello stesso Sala che - come Giorgio Gori a Bergamo - puntava a «non fermare» le città. Ma, attenzione, in quella fase non furono molto più avveduti gli altri esponenti milanesi e lombardi del Pd, tanto da commettere marchiani errori di analisi, per esempio sui tamponi, o sulle mascherine, salvo poi salire in cattedra con la Regione, che ne aveva commessi senz'altro meno (e meno del governo). Zingaretti ha rivelato di aver letto e riletto la Costituzione, in particolare l'articolo 32 (il diritto alla salute), ma deve essergli sfuggito l'articolo 117, che chiaramente attribuisce allo Stato competenza esclusiva sulla profilassi internazionale, e al Pd è sfuggito l'articolo 120, che stabilisce espressamente l'impossibilità per le Regioni di limitare l'esercizio del diritto al lavoro - e quindi l'impossibilità di introdurre «Zone rosse», come quella che fra il 23 febbraio e l'8 marzo avrebbe potuto essere istituita nella Bergamasca. È stata quindi interessante la partecipazione degli scienziati, ma l'esibizione degli esponenti di partito ha sfiorato il grottesco.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.