Gli scioperi alla Scala come quelli a Pompei il commento 2

Gli scioperi alla Scala come quelli a Pompei il commento 2

I lavoratori della Scala sono dei privilegiati, perché fanno uno splendido lavoro nel teatro più bello e famoso del mondo. E lo sanno. Ma c'è un equivoco: pensano che essere privilegiati comporti il diritto a ulteriori privilegi, sancendo una «diversità» quasi etnica. E invece è esattamente il contrario: dovrebbero essere loro disposti a sacrifici e sforzi compensativi, per pagare il privilegio di cui godono. Dovrebbero, ad esempio, perfino accettare remunerazioni inferiori a quelle di altri lavoratori dello spettacolo in cambio del privilegio - appunto - di lavorare nel più bello e famoso teatro del pianeta. Quanti di quei loro omologhi accetterebbero stipendi più bassi pur di lavorare alla Scala? E invece gli scaligeri non perdono occasione per scioperare, facendo saltare rappresentazioni e lasciando con tanto di naso (e tanta rabbia) centinaia di milanesi e di turisti. Com'è successo l'altro ieri con «Così fan tutte» di Mozart. La ragione? L'annuncio della direzione generale di dover applicare una norma del decreto Franceschini che prevede la detrazione di parte dello stipendio sui primi dieci giorni di malattia, norma già applicata ai dipendenti pubblici e che il decreto estende ai lavoratori dello spettacolo. Una legge, insomma, che se è uguale per tutti non lo è per i dipendenti della Scala che, evidentemente, si considerano meno uguali degli altri. E quindi, zac! Sciopero. E per capire la facilità con la quale in questo teatro si può proclamare, e sempre con pieno successo, un'astensione dal lavoro, per prendere consapevolezza del potere che soprattutto la Cgil ha alla Scala, basta scoprire quanti dei (troppi) dirigenti del «tempio della lirica» provengono dai quadri sindacali. Ma le cose stanno così da molti anni ormai e c'è poco da fare. Tant'è che quel vero duro del sindaco Giuliano Pisapia, presidente della Fondazione Scala, dopo lo sciopero di venerdì ha autorizzato il sovrintendente Stéphan Lissner (uscente in attesa di un Alexander Pereira debolissimo dopo lo scandalo delle produzioni del «suo» Festival di Salisburgo da lui vendute alla «quasi sua» Scala) «a sospendere, fino alla conversione in legge del decreto all'esame del Parlamento, le trattenute ai dipendenti in caso di malattia». In questo modo ha salvato la prima di «Le Comte Ory» di Rossini in cartellone per il 4 luglio. Immediata e compiaciuta la reazione dei sindacati che ringraziano «per l'impegno a cambiare gli iniqui provvedimenti del decreto Franceschini». Impegno che non si capisce come possa essere stato preso: in che modo, cioè, un sindaco possa cambiare un provvedimento del governo, in particolare dopo che sarà diventato legge dello Stato. Ma già, quelli della Scala si considerano dei privilegiati, dei diversi e quindi pensano che per loro sarà possibile. D'altra parte ormai sanno bene, per esperienza, che basta annunciare lo sciopero per ottenere - in questo sono davvero dei privilegiati. Aspettiamoci quindi le solite minacce in vista della Prima del 7 dicembre, e chissà quali capricci nei mesi dell'Expo. Ed è ormai opportuno chiedersi fino a quando questa arroganza sindacale, questo disinteresse per il pubblico pagante inciderà sulla qualità e sul prestigio del teatro. Nei giorni scorsi ho letto e sentito tanto sarcasmo e scandalo sulle agitazioni sindacali che a Pompei lasciano fuori centinaia di turisti.

È esattamente quello che venerdì scorso e in tante altre occasioni è successo alla Scala: turisti venuti da Pechino o da New York, da Buenos Aires o da Tokio che rimangono frustrati e delusi sotto il porticato del teatro «in sciopero». Insomma, i blasonati dipendenti della Scala sono praticamente uguali ai custodi di Pompei. Solo un po' più arroganti.

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