Le minoranze russe nuova arma di Putin

Il prossimo obiettivo è l’Ucraina, poi la Moldavia. A rischio perfino i Paesi baltici

La guerra è finita. Anzi, potrebbe essere solo agli inizi. Non più in Georgia, ma in Ucraina, in Moldavia, nell’Asia Centrale e forse anche nell’Unione europea, in quei Paesi Baltici la cui indipendenza non è mai stata davvero accettata in certe stanze del Cremlino.
A Mosca in queste ore si respira un clima euforico e non solo perché il duo Putin-Medvedev è il grande vincitore di questa crisi. L’impressione è che il Cremlino abbia trovato il modo di neutralizzare l’espansione americana in quello che fu l’impero sovietico. Dal 2004 è il tormento di Putin, che ne ha provate diverse: ha rispolverato la retorica imperialista e tagliato le forniture energetiche a regimi sgraditi; ha imposto boicottaggi economici ed elaborato manovre di ostruzionismo politico. Sì, ha ottenuto qualche successo, ma è mancato il colpo del ko; perché la logica era imperniata sul rovesciamento dei regimi; non considerando soluzioni intermedie o alternative. Una logica applicata, peraltro, non sempre in modo avveduto.
Prendiamo la Georgia: dal 2004 il Cremlino ha tentato in ogni modo di indebolire il presidente Saakashvili, ma senza costrutto, perché alle presidenziali di gennaio in lizza c’erano solo candidati filoamericani. In Ucraina, invece, l’uomo fidato rispondeva al nome di Viktor Yanukovic, che ha saputo sfiancare la rivoluzione arancione, ottenendo la maggioranza relativa alle legislative, ma non quella assoluta ed è costretto all’opposizione.
Ora, però, il quadro è cambiato, e per capire come, bisogna risalire all’indipendenza del Kosovo. Il 17 febbraio 2008 è il giorno X: l’Occidente si arroga il diritto di strappare una regione a uno Stato sovrano. Cade un tabù. Il Cremlino è furioso e avverte: se vale per voi, vale anche per noi. E trasforma il principio della reciprocità in un micidiale grimaldello strategico. La crisi nell’Ossezia del Sud trova origine e legittimità nello strappo del Kosovo. E con ogni probabilità non rimarrà isolata.
Basta ascoltare certe voci moscovite per intuire che il Cremlino intende applicare il «modello Georgia» ad altri Paesi. Mosca non punterà più solo a cacciare i regimi sgraditi, ma proverà a destabilizzarli e a dividerli su base etnica o religiosa. L’eredità dell’Urss agevola l’operazione: in molti Paesi ex sovietici i russi costituiscono minoranze importanti. Basta attivarle e il gioco è fatto. D’altronde che cosa rischia Medvedev? I fatti di questi giorni hanno dimostrato l’impotenza dell’America e, indirettamente, quella dell’Europa, che non può mettere a repentaglio i rifornimenti di gas e deve tacere o, al più, mediare.
Il primo obiettivo è stato raggiunto: la Georgia da oggi è uno Stato amputato, che difficilmente verrà ammesso nella Nato, considerata l’inaffidabilità dei suoi leader. Poi probabilmente toccherà all’Ucraina, grande e irrinunciabile. La questione della Crimea non è mai stata risolta e il Paese è già diviso virtualmente in due: le minoranze russe, sebbene rappresentino il 17,3% della popolazione, controllano il sud e l’est; inoltre possono contare sulla simpatia di molti ucraini che a casa continuano a parlare la lingua di Tolstoj (in tutto i russofoni toccano il 30%) e che, in quanto ortodossi, non amano i cattolici uniati, filoccidentali e fedeli al Papa; men che meno la Nato. Basta una scintilla per scatenare un movimento secessionista, che condurrebbe, probabilmente, a una guerra civile.
Poi c’è la Moldavia, dove il gioco è semplicissimo. Dal crollo dell’Urss circa mille soldati sono stanziati nella Transnistria, la regione a maggioranza russa che nel 1992 proclamò la secessione. Da allora la situazione è congelata, come d’altronde lo è stata a lungo in Ossezia del Sud e in Abkhazia; ma che ci vuole a riattizzare le passioni nazionalistiche?
E ancora, l’Asia centrale. Il vasto Kazakistan, ricco di materie prime e di petrolio, per ora è riuscito a mantenere buoni rapporti sia con Mosca che con l’Occidente, tuttavia se dovesse prendere un indirizzo sgradito, il Cremlino potrebbe facilmente rianimare i russofoni, che rappresentano il 25,6% della popolazione. Lo stesso vale per il Kirghizistan che, ecumenicamente, ospita una base militare americana e una dell’Armata Rossa, ma che annovera anche quattrocentomila russi (pari al 9%), concentrati nelle regioni del nord.
Il puzzle include le tre Repubbliche Baltiche, che dal 2004 fanno parte sia della Nato sia dell’Unione europea. Se vuole, il Cremlino può dare molto fastidio, visto che i russi sono il 29% della popolazione lettone, il 26% di quella estone e il 6% di quella lituana.

Non è un caso che, periodicamente, a Riga e a Tallinn scoppino proteste, anche molto serie, e nessuno si stupirebbe se in futuro gli incidenti si moltiplicassero.
Tre spine conficcate nel fianco dell’Europa, tanto per chiarire i rapporti di forza. E altrove molte minoranze pronte a sollevarsi. La nuova super arma del Cremlino è quella etnica.
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