«Nelle mie disgrazie cerco di essere lucida, mi aiuta a non arrendermi». Finalmente, dopo un racconto intricato, che fa male come sempre, Rosita Torre si concede il lusso di una pausa senza lacrime. Le serve per riprendere fiato. Lei è la vedova di Emanuele Sidoni, lunica vittima romana del grande terremoto abruzzese dellaprile scorso. Lunica a essere stata abbandonata al suo destino: niente funerali di Stato, alla fine pagati dalla giunta Alemanno, e nessun sostegno alla famiglia. «Mio marito era lunico che portava lo stipendio a casa - spiega la signora Torre - sono rimasta sola con un figlio di 22 anni che studia e unaltra, di 29, che si è appena sposata. Per sopravvivere sono stata costretta a trovarmi un lavoretto. Ma dallo Stato, nonostante le promesse, ancora non ho avuto nulla». Non si tratta di gratuito accanimento o di una madornale dimenticanza, sia chiaro: tutto dipende dallinterpretazione di un decreto attuativo, un cavillo burocratico. Emanuele Sidoni non era residente a LAquila, non era uno studente e nemmeno uno straniero: dunque non rientra in nessuna delle categorie di beneficiari degli aiuti. «Tutte le vittime dovrebbero essere uguali - tuona Rosita Torre - e invece così non è. Chiedo solo di essere trattata alla pari degli altri, non pretendo niente di più. Pago lautostrada per andare a mettere un fiore sulla tomba di mio marito, pago le bollette, mentre le famiglie dei terremotati hanno avuto unesenzione, insieme con cibo e vestiario».
La mano del caso, della tragica fatalità, è grossa in questa vicenda: lunedì 6, per lavoro, Sidoni doveva trovarsi alla caserma di Coppito. Allora, anziché costringersi a unalzataccia, aveva deciso di dormire dai genitori, a Castelnuovo di San Pio delle Camere, il suo paese dorigine a 18 km dal capoluogo. La notte tra domenica e lunedì è stata lultima per Emanuele e i suoceri della signora Torre, mentre per lei è iniziato il calvario legato al lutto, amplificato dal braccio di ferro con la burocrazia.
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