«Mio zio García Lorca l’ho scoperto in esilio in America»

Manuel Fernández-Montesinos, figlio di Concha, sorella di García Lorca, e del sindaco di Granada fucilato dai franchisti dopo la conquista della città, è passato da Milano in occasione della rappresentazione del dramma lorchiano Donna Rosita nubile, al Piccolo Teatro (fino al 13 giugno). In un recente libro di memorie, Lo que en nosotros vive, ha raccontato l’esilio a New York, il ritorno in Spagna, le vicissitudini politiche che lo costrinsero ad abbandonare di nuovo il Paese, quindi il rientro definitivo a Madrid dove, dall’83, ha diretto la Fundación Federico García Lorca.
Come ha saputo della morte di suo padre? E quando ha scoperto l’opera di suo zio?
«La scoperta della morte di mio padre fu improvvisa, anche se lunga è stata la sua attesa. Un giorno il maestro americano mi disse che voleva parlare con mio padre e io gli risposi che era in cielo, come mi avevano detto in casa: il maestro mi abbracciò a lungo e io allora compresi la verità. Era la prima volta che provavo un sentimento così intenso e doloroso per l’assenza. Quanto all’opera di mio zio, ricordo vagamente di essere stato nel ’45 alla prima mondiale di Así que pasen cinco años nella versione inglese. In casa non si parlava mai degli avvenimenti degli inizi della guerra civile. Scoprii tutto leggendo l’introduzione inglese di un libro di mio zio, in cui si diceva che lui e suo cognato erano stati fucilati nel ’36».
Quando assunse la direzione della Fundación Federico García Lorca come si erano conservate, durante l’assenza della famiglia dalla Spagna, le carte lorchiane? E cosa è avvenuto con il manoscritto del Poeta en Nueva York? Qualche altra opera inedita si potrà recuperare in futuro?
«I manoscritti di mio zio rimasero nella Huerta de San Vicente: durante la guerra civile furono nascosti nel pagliaio di un giardino. Quando la famiglia nel ’40 lasciò Granada, mia madre li depositò in banca e lì rimasero fino a quando fu creata la Fundación. I manoscritti in origine erano dispersi in varie parti. Lo zio ne regalò alcuni come El Llanto, Bodas de sangre, Yerma; altri li mandò agli editori e si persero, come Poeta en Nueva York. Federico l’aveva consegnato all’amico scrittore e editore José Bergamín, che lo conservò durante la guerra civile, poi lo portò con sé in esilio in Messico e lo pubblicò. In seguito il testo scomparve; nel ’96 zia Isabel seppe dove si trovava e lo fece comprare dalla Fundación. All’inizio gli inediti giovanili erano migliaia, ma non credo ne esistano ancora; ogni tanto appare qualche lettera o un disegno. Recentemente a Boston stavano andando all’asta dei falsi: li abbiamo bloccati».
La Fundación García Lorca si trasferisce da Madrid a Granada con tutto l’archivio. Perché?
«La decisione risale alla nascita. La prima sede fu la Huerta de San Vicente di Granada; poi non fu più possibile rimanere lì e si scelse la Residencia de Estudiantes. Ora ci sono le condizioni perché la sede ritorni a Granada».
Conserva qualche ricordo particolare dello zio o tutto proviene dal racconto dei familiari?
«Ho molte fotografie in cui non ci sono presagi della tragedia che doveva avvenire, ma non ho alcun ricordo “fisico” di quei momenti, né di mio zio, né di mio padre. Tutto ciò che so l’ho appreso dopo. Ricordo confusamente i primi giorni della ribellione fascista: l’arrivo in casa di uomini armati, le discussioni, gli spintoni, il pianto delle donne».


Manuel tace e osserva una foto dello zio che lo tiene in braccio. Il viso di Federico si riflette sul vetro del bicchiere che ha davanti; guarda la foto e forse cerca nell’infanzia lontana il volto del padre che non ha mai conosciuto.

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