Bagdad ostaggio del premier che non vuole andarsene

Lotta per il potere mentre l'armata islamica si avvicina. Lo sciita Al-Maliki tenta il golpe per opporsi alla nomina del successore. Kerry punta a cacciarlo

Bagdad ostaggio del premier che non vuole andarsene

All'avanzata del Califfato, alla fuga dei cristiani e al massacro degli yazidi nell'Iraq martoriato si aggiunge lo scontro per il potere a Bagdad, che rischia di far sprofondare il Paese nella crisi peggiore dalla caduta di Saddam Hussein.

Il premier uscente, Nouri al-Maliki, che pensava di avere già in tasca il terzo mandato come capo del governo, è stato esautorato dalla nomina di un nuovo capo dell'esecutivo. Peccato che l'ex alleato degli americani e dell'Iran, oggi abbandonato da Washington e criticato pure da Teheran, non voglia farsi da parte. Ieri il presidente curdo dell'Iraq, Fuad Masum, ha colto al volo la candidatura a premier lanciata dall'Alleanza nazionale sciita, che ha vinto le elezioni a fine aprile. Il nuovo capo del governo incaricato è Haider Al Abadi, primo vicepresidente del parlamento e deputato del partito Dawa, lo stesso di Maliki. Ex esule a Londra fino al 2003, per la sua formazione e gli ultimi dieci anni di incarichi politici in cui ha dimostrato una certa abilità al compromesso, viene chiamato «l'ingegnere pacificatore».

Il segretario di stato Usa, John Kerry, ha subito appoggiato la scelta intimando ad al-Maliki di «non agitare le acque». Anche l'Iran aveva invitato il premier uscente a fare un passo indietro. Una volta tanto Teheran sembra in sintonia con Washington di fronte alla comune minaccia degli estremisti sunniti del Califfato che odiano gli sciiti filo-Iran e gli americani allo stesso modo.

Al Maliki è accusato di aver marginalizzato i sunniti provocando l'insana alleanza fra tribù, gli ex di Saddam e terroristi nella provincia di Anbar. Un volano che ha dato il via all'avanzata dalla Siria all'Iraq dell'aspirante Califfo, Abu Bakr al Baghdadi. Invece che farsi da parte in buon ordine, il premier uscente punta il dito contro il presidente iracheno ventilando l'impeachment per aver nominato un altro capo del governo. E mobilita i corpi speciali attorno ai palazzi governativi facendo temere un golpe oltre ai fedelissimi del partito scesi pure in piazza. Ben 43 su 53 parlamentari del Dawa, che fa parte dell'alleanza vincitrice delle elezioni, hanno respinto la nomina del nuovo premier sostenendo che «rappresenta solo se stesso».

Al-Maliki si è presentato in tv scuro in volto lasciando la parola ai suoi accoliti. La mossa rischia di scatenare una faida all'interno del mondo sciita paralizzando le forze di sicurezza sempre più allo sbando di fronte agli estremisti sunniti. Al-Maliki, al potere dal 2005, dopo l'esilio a Damasco ai tempi di Saddam, ha sempre affrontato a muso duro i sunniti dimostrandosi incapace di trovare un giusto compromesso, che forse avrebbe evitato il disastro attuale.

Gli Usa sono intervenuti ieri con altri raid aerei ma le forze dello Stato islamico continuano ad avanzare a sud, verso Bagdad, dove hanno conquistato la strategica Jalawla. Oggi si riuniranno a Bruxelles gli ambasciatori dell'Unione Europea. Sul terreno, in attesa delle farraginose decisioni dell'Occidente, il massacro continua.

Vian Dakhil, l'unica deputata yazida nel Parlamento iracheno, ha denunciato ieri che «ogni giorno muoiono di fame e di sete 50 bambini» della sua comunità nel mirino della pulizia etnico-religiosa del Califfato.

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