California, da Stato dorato a welfare state fallito

Uno sguardo al faro del progressismo statunitense che ha orgogliosamente dichiarato guerra alla sua classe media

California, da Stato dorato a welfare state fallito

Sono trascorsi sessant’anni, ormai, da quando lo scrittore e opinionista Westbrook Pegler rese omaggio al vibrante laboratorio di sperimentazione socioeconomica californiano, coniando l’adagio “As California goes, so goes the Country” (“Dove va la California, va pure il paese”) . Già allora, lo “Stato dorato” incarnava gli ideali e le aspirazioni del liberalprogressismo statunitense. La California conserva tuttora tale immagine, quantomeno nel superficiale contesto del discorso politico; in sessant’anni, però, la Gold Coast ha subito un mutamento radicale, al punto che quello di Pegler suona ormai come un sinistro monito in merito al futuro degli Stati Uniti.

L’establishment politico, accademico e culturale californiano ama dipingere sé stesso e il proprio Stato come luminosa avanguardia del progresso socio-culturale globale. Tale particolare forma di eccezionalismo poggia su un codice di valori affatto dissimili da quelli tradizionalmente statunitensi. Dopo l’elezione di Donald Trump a presidente Usa, alla fine del 2016, questa incompatibilità valoriale è culminata in una vera e propria “secessione morbida”: in poco più di un anno, Sacramento – autoproclamatasi prima linea della “resistenza” anti-Trump – ha intentato decine di cause legali contro la Casa Bianca e il governo federale, dal clima all’immigrazione, passando per controlli delle nascite, diritti gay, censo, assistenza sanitaria... Purtroppo per la California, l’ammaliante immagine offerta da Hollywood e dalla Silicon Valley è ormai agli antipodi rispetto al vissuto quotidiano di gran parte degli abitanti di quello Stato. E’ emblematico in questo senso un recente video, divenuto virale negli Usa, che riprende l’ingresso della Civic Center Bart Station di San Francisco, disseminata di siringhe, rifiuti e tossicodipendenti riversi nelle loro stesse eiezioni. Non si tratta di un caso isolato: le periferie delle grandi città californiane sono un campionario di tendopoli e degrado, spesso a pochi passi dalle sedi di quei campioni della nuova economia tecnologica salutati come alfieri dei nuovi paradigmi evolutivi della società occidentale.

Se la California fosse una nazione indipendente – e a prendere per buone le dichiarazioni dei suoi politici, tale prospettiva appare tutt’altro che inverosimile – sarebbe oggi il 17mo Stato al mondo per diseguaglianze socioeconomiche, con un coefficiente Gini di 0,49: peggio persino di Messico e Guatemala, da dove ha accolto a braccia aperte milioni di immigrati. Il tasso di povertà della California è del 20,6 per cento, quasi il doppio della media statunitense. Un altro 20 per cento della popolazione vive in una condizione di “quasi povertà”, e fatica a reperire le risorse per soddisfare necessità primarie come l’alimentazione e l’alloggio. Un terzo dei cittadini dello Stato è iscritto al programma Medi-Cal per l’assistenza sanitaria ai meno abbienti. In California il potere d’acquisto reale di 100 dollari si riduce ad appena 88 dollari a causa dell’elevatissimo costo della vita. In termini di disparità di reddito, la California è seconda negli Usa solamente allo Stato di New York. Un incredibile dato per tutti: nello Stato dorato, appena 5.700 persone generano quasi il 40 per cento del gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.

La tassazione californiana sul reddito e sui consumi è la più elevata negli Usa, così come il costo della vita. Ciononostante, la California si trova alle prese con un deficit di bilancio superiore a un miliardo di dollari. La vera crisi di bilancio, però, sta nei passivi non finanziati (le cosiddette “unfunded liability”), inclusi gli impegni pensionistici, che ammontano all’astronomica cifra di quasi mille miliardi di dollari. La California non è stata in grado di affrontare strutturalmente l’annoso problema dell’approvvigionamento idrico, fatta eccezione per una bordata di regolamentazione, ovviamente in nome del “mutamento climatico”. In compenso, i californiani hanno riversato decine di miliardi di dollari nella promozione delle energie rinnovabili. Sebbene la domanda di energia sia in calo dal 2008, e lo Stato produca già oggi molta più energia di quanta ne consumi, il prezzo dell’energia in California è superiore del 41 per cento alla media nazionale statunitense. Il prezzo degli immobili è a sua volta proibitivo, e in costante aumento: “merito” di una inestricabile rete di regolamenti, requisiti ambientali ed energetici, politiche sullo sfruttamento del territorio e dell’afflusso smodato di immigrati nello Stato, che ha causato un deficit di 1,5 milioni di unità abitative. Secondo il “New York Times”, ad oggi addirittura un quarto dei senza tetto d’America vive in California.

Questa impietosa carrellata di dati dimostra come la California, un tempo Mecca della classe media e del “sogno americano”, si sia addentrata in un incredibile processo di “depauperamento pianificato”. Nel corso dei decenni la California si è dotata di uno stato sociale smisurato. Nell’ultimo quarto di secolo la spesa pubblica è aumentata in media del 6,8 per cento ogni anno; nello stesso periodo, l’economia è cresciuta mediamente del 5,5 per cento annuo. Invertire la parabola della spesa pubblica assistenziale pare ormai impossibile, alla luce degli squilibri socioeconomici sopra citati. Non sorprende, dunque, che il bilancio approvato dal governatore Jerry Brown per l’anno fiscale in corso sia il più vasto nella storia della California: ben 183,2 miliardi di dollari – 12 miliardi in più rispetto all’anno precedente – destinati perlopiù a sanità, sussidi al reddito e alla pessima istruzione pubblica di quello Stato. Tra le innumerevoli voci di spesa ne spicca una di singolare: 50 milioni di dollari in servizi di assistenza legale agli immigrati clandestini, per contrastarne l’espulsione da parte delle autorità federali statunitensi. Solo in California, l’immigrazione illegale costa in termini di istruzione e assistenza medico-sanitaria 25 miliardi di dollari l’anno.

Questo colossale welfare state si è rivelato un magnete per poveri e disadattati dal resto dell’Unione e, soprattutto, dall’intero Continente americano. Dall’Immigration and Nationality Act del 1965, che ha spalancato le porte degli Stati Uniti all’immigrazione di massa, la popolazione della California è più che raddoppiata: da 16 a 39 milioni di abitanti. Gran parte di questa epocale crescita demografica, da cui peraltro dipende l’enorme peso politico-elettorale di cui lo Stato gode a livello federale, è riconducibile proprio all’immigrazione dal Centro America. Il Public Policy institute of California stima che ad oggi risiedano in California almeno 10 milioni di immigrati, oltre un quarto della popolazione statale complessiva. Mentre Sacramento accoglie immigrati a milioni, ben un milione di persone – una buona fetta della classe media californiana – ha fatto i bagagli in meno di un decennio, tra il 2007 e il 2016, trasferendosi in Stati dalla concezione meno bislacca della realtà come Texas, Arizona, Nevada e Oregon. Altrettanto, stando a uno studio di Spectrum Location Solutions, hanno fatto 10mila imprese tra il 2008 e il 2015, inclusi grandi nomi quali Toyota, Honda, Nissan e Nestle.

Dati alla mano, la California pare dimostrare come socialdemocrazia e cosmopolitismo dei confini aperti siano fondamentalmente incompatibili sul piano sociopolitico, prima ancora che economico. Basti pensare alle assurde politiche di tutela legale degli immigrati clandestini di numerose amministrazioni californiane – le cosiddette “sanctuary city” – varate per garantire alla politica locale il sostegno di quello che è divenuto, giocoforza, il nuovo elettorato statale di riferimento; con eccessi aberranti, come la decisione di San Francisco di estendere tali politiche di protezione persino ai clandestini colpevoli di reati violenti. L’espansione incontrollata del welfare state, unita al progressivismo dalla classe dirigente Californiana, impermeabile alle conseguenze dei propri eccessi ideologici, sta conducendo quello Stato ad un baratro. Come scrive lo storico Victor Davis Hanson, in un recente articolo sul “Washington Times”, “comprare casa in California è praticamente impossibile. (…) Trovare una scuola pubblica decente e sicura è difficile. Costruire una singola diga durante la grande siccità californiana, per sfruttare le precipitazioni record degli anni successivi, si è rivelato politicamente impraticabile.

Tutto questo, però, non importa. Molti californiani ritengono questi problemi esistenziali un fastidio pre-moderno ai loro sogni post-moderni di treni avveniristici, legalizzazione della marijuana e secessione dagli Stati Uniti”.

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